Ora finiamo il “bruto Minore”. Il personaggio di Bruto riconosce la morte come unico strumento utile e significante per poter reagire alla decadenza dei tempi, tempi attuali che hanno appunto cancellato tutti i valori. E’ il momento in cui si dichiara l’importanza di un gesrto di resistenza, di lotta contro il fato; e l’unica lotta possibile e consentita all’uomo è proprio quella contro i tiranni, ma contro anche la vita, vita che si è degradata nei giorni contemporanei. E’ una lotta che oramai l’uomo non conosce più, facendo prevalere l’egoismo, e tutti i disvalori che nulla hanno a che fare con l’autenticità e la sincerità del mondo antico. Versi 46 e seguenti…
Un dettaglio tecnico va sottolineato, ovvero ci fa notare come tutte le stanze si chiudino con un verso (45, 60 e precedenti). E’ una costante questa della parte della canzone che possimao definire agonistica, di contrasto, ed è un po’ il contrassegno(se badiamo al significato dei verbi) dell’opposizione che si viene designando tra l’uomo e il cielo. Nella prima parte della canzone Leopardi ha detto che la natura non ha più nulla da concedere all’uomo. Ora ci dice acneh che anche gli Dei si rifiutano di soccorrere l’uomo. Questo spiega anche l’insistere del poeta su quella immagine da eroe, eroe sconfitto ma no piegato che la si trova nei versi 31-45, la figura cioè di Bruto che sconfitto decide di uccidersi sorridendo davanti al fato, ghigno di chi è consapevole, definito “maligno” ma non con accezione negativa, bensì con una valenza ironica. Il sorriso è la manifestazione di chi è consapevole della sconfitta. Il suicida sovrappone la propria volonta a quella degli dei, scavalca la volontà divina. Un’atto tanto valoroso come quello di togliersi la vita, dice Leopardi,non è nemmeno concepito dagli dei (molli petti). La condizione umana sfugge così al sapere divino. Presenta subito dopo come gli dei siano i fautori del male umano, e quindi diventano “malvagi dei”. Allora va a contrapporre gli dei alla Natura. Questa impose per gli uomini un’età non speso tra sciagure e colpe, ma in mezzo alla purezza e alla libertà. Quando cioè l’uomo viveva a contatto con a natura, libero dalle leggi divine e dalle imposizioni della ragione, in quell’età dell’oro libera d’affanni e viva d’illusioni. Perfino la natura si ribella al gesto del suicidio. <<la vecchiaia serenamente porta le fortunate belve che sono del tutto prive di colpa e anche inconsapevoli di tutti i danni che a loro si preparano>>. Leopardi contrappone l’immagine dell’uomo evoluto, contemporaneo, costretto a suicidarsi (gravato dalle leggi della ragione) le fortunate belve, quell’uomini ferini che erano fortunati poiché a contatto con la natura, in un’illusione beata, e per questo essi si avviavano tranquillamente e naturalmente alla morte. << e se spezzare la testa contro un tronco d’albero oppure lanciare le proprie membra velocemente al vento precipitandosi da una rupe, se a fare questo spingesse il dolore, a quel povero desiderio le leggi divine non avrebbero fatto alcuno ostacolo>>. Vale a dire che l’uomo primitivo era pure libero nel suicidarsi, poiché non esistevano colpe, peccati, non c’èrano imposizione della religione. Poi dice << solo nei vostri confronti, figli di Prometeo, fra tutte quelle popolazioni, generi di esseri viventi, cui il cielo dette vita, solo voi sviluppaste l’odio per la vita>>. Quindi ora Leopardi ha fatto un piccolo spostamento di significati: l’uomo primitivo p completamente assimilato alle belve, alle quali vengono contrapposti i “figli di Prometeo”, coloro che scelsero la ragione (questo è il significato del mito di Prometeo: è la volontà di liberazione dell’essere umano e la scelta di procedere verso una conoscenza sempre più perfezionate e tendente la divino che è simboleggiata con il fuoco- Prometeo etimologicamente significa “colui che vede avanti“ ed è l‘inizatore delle arti, della scienza, del progresso. ).<<solo vuoi figli avete sviluppato l’odio per la vita, solo a voi Giove vieta di andare nell’Ade nei momenti in cui il fato tarda a venire>>. Sta dicendo che gli uomini hanno deciso per la conoscenza ma si trovano incatenati nei vincoli della ragione. Ora il paesaggio si fa ancora più desolato, poiché viene introdotta l’immagine della luna che sorge, in altre parole l’immagine della natura, la quale non è più uan compagna solidale dell’uomo, bensì un’entità indifferente. <<e tu luna candida nasci dal mare macchiato del nosto sangue, e dall’alto osservi la nostra sventura e tutti quei luoghio campestri che sono funesti, mortali per il valore italico>> (Eusonia è uno degli antichi nomi dell’antica italia) << il vincitore ora calpesta petti fraterni (citazione da ovidio- fa riferimento alla guerra civile), fremono i sette colli di Roma e Roma antica dalla condizione elevata nella quale si trovava, crolla, muore, e di fronte a tutto questo, perche Luna sei così tranquilla? (il pronome “tu” è ripetuto molte volte) Tu hai visto la nascita della stirpe latina,hai visto quegli anni lieti, i trionfi memorabili, e tu allora nonostante tutto questo, in silenzio continuerai a produrre immutato il tuo raggio di luce sulle Alpi quando sotto il piede dei barbari, nella condizione di sconfitta dell’Italia serva, questa sede solitaria risuonerà>>. << sia la fiera che l’uccello con il petto ancora preso dal consueto oblio ignorano l’alta ruina e la condizione profondamente mutata del mondo. E non appena la luce del giorno tingerà il tetto della capanna del laborioso contadino allora con il canto del mattino l’uccello sveglierà le valli e la fiera per le valli metterà in fuga la massa amorfa (inferma) delle bestie più deboli. O umanità inutile, noi siamo la parte peggiore, la iù spregiata del cosmo e la nostra sciagura non ha toccato minimamente le zolle tinte di sangue, o le grotte dove ululano le belve feline, né i pensieri umani hanno offuscato la luce delle stelle (immagine che ritorna in Virgilio: le stelle si oscurano quando si ha un evento straordinario). >> Poi Bruto arriva a parlare e dichiara la sua disperazione, non gli resta più nulla, solo la protesta per affermare la sua condizione di essere umano, tutto il resto viene travolto e cancellato. <<Io non chiamo a testimone del mio sacrificio i re, i sovrani sordi del cielo o dell’inferno, e nemmeno la terra oramai indegna della mia immagine e del mio gesto (nemmeno gli uomini-gesto solitario, non esibito), e nemmeno la notte chiamo a testimone, io che sto per darmi la morte. E nemmeno te invoco, ultimo barlume della morte oscura (in procinto di morire ci potrebbe essere un bagliore di speranza- Bruti si negha pure quella). Forse che parole e offerte di un gregge indistinto di uomini sono riusciti a placare i singhiozzi intorno ad una tomba sdegnata (significa: le preghiere hanno reso più umano ed accettabile la tomba?- non serve a niente pregare, nemmeno l‘offerta ), poiché i tempi vanno verso il fondo. E l’onore di menti elevate e la vendetta estrema dei grandi infelici è affidata inutilmente ad eredi corrotti, degeneri (non c’è nemmeno speranza di Foscolo, la speranza di un lacrimato porto, ovvero che le lascrime di chi restava potessero consolare il defunto), e allora il corvo (il bruno augello) ruoti intorno a me le sue penne, le fiere dilanino pure il mio corpo, e le intemperie prendano possesso del mio cadavere di un uomo che prima era glorioso ed ora invece è ignoto, e l’aria e il vento accolgano, disperdano sia il nome che il ricordo>>. Dunque come vedete è un messaggio del tutto privo di speranza e questa canzone ha il emrito di condensare in una struttura non troppo retorica, pesante , una serie di pensieri intorno al tema del suicidio formulati da Leopardi proprio nei mesi immediatamente anteriori alla stesura del Bruto Minore (scritto in 20 gioni nel dicembre del’21). E se noi andiamo a scorrere quello che Leopaerdi annotava sulle pagine del suo diario in quello stesso tempo, ricaviamo informazioni incredibili sul retroterra di questi testi. I passi dello Zibaldone potrebbero costituire un commento circolare sulla canzone. Ecco un pensiero dellì’ottobre del 21 <<Il suicidio è contro natura ma viviamo noi secondo natura? No non l’abbiamo del tutto abbandonata per seguir la ragione? Non siamo animali ragionevoli, cioè diversissimi dai naturali? La ragione non ci mostra in evidenza l’inutilità di morire? Desidereremmo noi di uccidersi se non conoscessimo altro maestro che la natura?>>. Noi abbiamo iniziato a desiderare di morire quando abbiamo iniziato ad usare la ragione, allontanarci dalla natura. Dovevamo restare come animali.
Ci stiamo avviando al di fuori del recinto delle prime canzoni.
ULTIMO CANTO DI SAFFO
E’ de maggio del 22. Condivide con il Bruto minore 8che è comunque spazialmente distante nella raccolta dei canti) la stessa tematica classica e soprattutto mitologica. Sono essenzialmente tre i temi svolti in questa canzone: 1)l piacere o della bellezza, 2) quello della malvagità degli dei nei confronti del genere umano (come Bruto Minore)- questo tema degli dei malvagi è ripreso con uan variante rispetto al Bruto Minore; abbiamo visto che nella precedente canzone questa immagine degli dei falsi e bugiardi era il centro di un monologo che riguardava il distacco dalla natura. , 3)il distacco dalla natura che Saffo esprime come “causato dalla sua propria bruttezza”, che fa soffrire la donna come una figlia abbandonata dal padre. E qui c’è una forte ambiguità psicologica (il rifiuto del padre nei confronti della figlia è da un lato mascherato nella forma di Zeus (che come unico dono alla sua figlia fa il dono della bruttezza- quindi sta dietro anche l‘immagine del padre di Leopardi, apdre che ha dato la bruttezza al figlio) ; 3) tema della fanciullezza, intesa come unica epoca felice, seguita dal dolore dell’età adulta.
Ci sono due situazioni poetiche analoghe nel cnato di Saffo e nel Bruto Minore: sono il sorgere della luna che domina la disfatta esistenziale di Bruto, e nel canto di Saffo è presentata come luna al tramonto che lascia il posto a venere, alla stella detta anche “lucifero>“, stella che per prima appare al mattino e che anche qui ironicamente assiste al monologo dell’infelice amante. Bruto aveva dichiarato e simboleggiato la separazione dell’uomo dalla natura come motivo e giustificazione del suicidio. Saffo coinvolge il lettore nel suo desiderio impossibile nella realizzazione di essere riconosciuta come parte di una natura che si allontana da le, come un amante infastidito dalla sua presenza. Saffo ha un compito fondamentale: dice che oramai non c’è più alcun rapporto tra virtù e bellezza. Bruto invece aveva detto che non c’èra più rapporto tra virtù e gloria. Rimane a saffo un sentimneto di peccato, un senso di colpa del tutto inspiegabile e che rende Saffo molto moderna sotto questo punto di vista. Ella afferma <<ogni più lieto giorno di nostra età s’invola>> e così sentiamo che in questa canzone c’è il lessico sentimentale degli idilli, il che significa in termini di poetica leopardiana che le illusioni dell’immaginazione cadono e si fa strada il vero della modernità. Vi dico questo perché con le due canzoni di Bruto e Saffo Leopadi introduce una nuova concezione del tempo, vale a dire un’idea del tempo della vita che si consuma immediatamente, in brevissimo spazio e prosegue solo in termini di decadenza, caduta e rovina.
Per quanto riguarda il tempo è bene accennare le poesie “Alla primabera” e “l’inno ai patriarchi”.
Queste sono due canzoni nelle quali Leopardi mette a confronto il tempo dell’uomo e il tempo della natura, e per farlo ricorre al mito antico, alla mitologia. Ma un mito sia in accezione classica (profana), sia in accezione biblica (sacra). Sono quindi due meditazioni sulla storia collettiva che si rifletta nella storia individuale. In queste due canzoni il poeta si rivolge direttamente alla natura e le chiede perché essa non ritorni a vivere negli uomini ogni volta che risorge la primavera (ogni anno). Si dice quindi che c’è nella storia dell’uomo un ciclo naturale ma anche contemporaneamente che mentre tutto il creato ogni anno si rinnova, l’uomo invece è l’unico essere animato escluso da questo ritorno, da questo rinnovamento, poiché è l’uomo stesso che ha cancellato il sogno giovanile attraverso la conoscenza del vero. Leopardi infatti si chiede che anche se il sole torna e con la primavera negli animali risorge la passione, perché nelle menti umane non ritorna la bella età giovanile, perché ogni anno non si torna alla giovinezza, bensì si procede verso la morte(la vita dell‘uomo è quindi destinata al deperimento). Proprio perché vienen coinvolta la poesia in questi due canti, Leopradi inserisce una lunga serie di episodi mitologici che servono a dimostrare quel rapporto di intensa comunicazione, di rapporto organico che esisteva tra l’uomo antico e la natura, e sono 5 micro racconti ricavati tutti da autori antichi ben individuati. Il primo dice che un tempo le ninfe abitavano fiumi e monti e il pastore nel silenzio del mezzogiorno conduceva il gregge a bere a queste fonti e poteva udire la presenza di Diana (situazione campestre, rurale, georgica). Il secondo racconto parla della lice della luna che nella notte accompagnava il viaggerete che si sentiva protetto, orientato, indirizzato verso un obiettivo. Quindi non era la luna indifferente, bensì confortante il viaggiatore. Il terzo tema è quello della solitudine, cioè che si allontanava dalla compagnia dei propri simili non era un reietto, un isolato, un destinato al suicidio e alla scomparsa, ma aveva con se l’illusione di abbracciare nelle selve donne bellssime trasformate in alberi (come Dafne trasformata in alloro)- animazione della natura - quindi anche la solitudine dell’uomo antico era accompagnata da fihgurazioni che portavano al loro interno presenze luminose, rincuoranti. Il quarto racconto è qeullo della ninfa Ego consumata dall’amore per Narciso, che è capace di rendere partecipe del suo dolore i luoghi desolati ed inabitati dove si nascondeva per piangere. L’ultimo episodio è quello dell’usignolo che ora canta l’anno che nasce ma un tempo era considerato l’incarnazione della sventurata filomena, violentata dal cognato Tereo (marito della sorella Procne). Si può dire che c’è una cesura, uno scarto molto profondo tra i rpimi tre esempi e i restanti due, perché si vede e s’intende chiaramente che quella che sembrava nei primi tre esempi una felice condivisione della vita della natura dapparte dell’uomo improvvisamente diventa ricordo di dolore e di una scena di violenza. Dal piacere provato dal pastore nel vedere la Dea al bagno si passa la destino cupo di Filomena come se la morte del mito nel mondo moderno fosse già preannunciata, fosse gia implicita nei miti crudeli del mondo antico, anzi si sottolineii che è proprio il canto dellusignolo (cioè il segnale della primavere) che è un canto che gli uomini ascoltano con tristezza perché non è più segno ne simbolo di quella antica condivisione con la natura. La fine del mito dunque e potremmo dire anche dell’illusione mitica coincide con la fine della sensibilità dell’uomoper cui la terra non è più ferace generatrice di sogni e di amori, ma è una landa desolata, un luogo morto, senza più quella vitalità espansiva che alla terra riconoscevano gli antichi. Comunque in chiusura resta ancora un piccolo segnale di speranza perché in chiusura il poeta non rinuncia a rinnovare il suo appello, la sua richiesta alla natura chiedendole di ascoltare di nuovo la condizione dolorosa dell’uomo e magari di restituire a lui che pretende di esser un poeta come quelli antichi una piccola favilla di quell’antica energia vitale (anche se Leopardi è ben consapevole che non sarà certo la Natura a dargli un po’ più di vita, bensì saranno i versi dei poeti antichi a ridargli quell’antica forza esistenziale impressa nel loro artificio poetico).
ULTIMO CANTO DI SAFFO
E’ un testo cui Leopardi dedica molta attenzione e cura; vi sono dei brani dello Zibaldone utilizzati per la stesura di questo testo, ma diciamo che il personaggio di Saffo era un mito molto importante, ma lo era stato fin dall’età tardo antica, era u’immagine letteraria che era diventata moneta corrente per tutti i poeti da Ovidio in avanti. In questo testo la materia è la fine dello slancio vitale nell’uomo (della donna), che è costretto a prendere atto dell’esclusione dalla vita vera e pulsante a causa, nel caso di saffo, della bruttezza.(assenza del valore confortante della bellezza). E’ evidente che il concetto di fondo è proprio l’impossibile partecipazione dell’uomo alla vita della natura. La canzone, scritta nell’arco diuna settimana (maggio 22) è abbastanza breve, composta da 4 strofe di 18 versi ciascuna. Possiamo ora legegr el aprima stanza…..
Ancora una volta il psaso di partenza viene da un dato eserno, dalla descrizione di un elemento reale trasfigurato dall’immaginazione in un piano mitico.
La prima strofa presenta l’armonia che c’era tra uomo e natura.
Nella seconda stanza abbiamo il rifiuto della natura.
La prima parte dei canti lascia il lettore con la sensazione forte e decisa del nulla, della impossibilità di reagire contro il vuoto e il negativo che dominano la vita contemporanea. Allora detto questo noi potremmo aspettarci che anchenla parte centrale dei Canti, ovvero quella successiva alle prime 9 poesie e quindi lòa parte degli Idilli, fosse legata a queste stesse idee.. Invece no! Vediamo che proprio perché la parabola vitale ed operativa di Leopardi è molto concentrata (nel giro di 20 anni dice tutto), gli spostamenti di prospettiva sono rapidissimi. Nel passaggio dal nono al dodicesimo canto (l’infinito) vediamo che sono profondamente mutate le idee di Leopardi, anzi, c’è una nota di positività, di speranza, all’interno dell’Infinito e degli idilli. Ma di questo diremo più avanti..
Per adesso chiudiamo il discorso dellUltimo discorso di Saffo.
Si congeda con una fine funerea e vana. Non solo l’amore di Saffo è stato vano ma che anche la vita è stata inutile, dal momento in cui sono stati cancellati i sogni della giovinezza, quindi sin da subito. Quindi anche vivere diventa un “appresamento della morte”. “moriremo”, dice Saffo, e usa il plurale perché una citazione di “moriemur” che si trova nell’Eneide (Didone che fugge da Enea).
L’intelletto non riesce a concedere la felicità, e tutto è pervaso dal nulla della morte. Le uniche risorse che l’uomo e la donna hanno sono quelle delle illusioni che eprò vengono vanificati una volta passata la fanciullezza, oppure vengono vanificati dalla atroce consapevolezza, dalla verità (la realtà non corrisponde mai alle illusioni). Dunque si potrebbe leggere delle pagine dello Zibaldone a proposito <<l’uomo di immaginazione di sentimento e di entusiasmo, privo della bellezza del corpo è verso la natura pressappoco quello che è un amante verso l’amata sincerissimo e non corrisposto nell’amore e lì si slancia verso la natura, ne sente profondissimamente tutta la forza, la bellezza, l’incanto, l’ama con tutta la forza. Ma poiché non corrisposto, egli si sente non partecipe della bellezza naturale che ammira. [..] Egli sente subito che quella cosa che ammira e ama non gli appartiene. Egli prova quello steso dolore che si prova nel vedere l’amata nelle braccia di un altro e del tutto non curante di lui. Egli sente quasi che il bello e la natura non è fatta per lui, ma per altri e questi, meno degni di lei, indegni, incapaci di sentirla ed amarla>>.
L’impegni civile, la polemica verso la corruzione del presente, lo sdegno verso gli eventi storico-politici, sono quegli aspetti che abbiamo incontrato come dominanti nella prima poesia leopardiana. E abbiamo visto anche che Leopardi pur essendo giovane si presenta con una voce molto matura (colloquia con i grandi intellettuali del tempo come fossero alla pari), e parte da questo livello elevato soprattutto perché vuole colpire i suoi contemporanei, invitandoli a risvegliarsi da un sonno di secoli per recupèrare almeno una porzione dell’antica grandezza. Questo è l’aspetto pubblico, civile della poesia leopardiana. Quindi è una sorta di vate, un poeta profeta che aspira a farsi almeno in parte trascinatore e comunicatore di idee. Ma questo è l’aspetto pubblico e declamato della poesia leopardiana. C’è però un altro aspetto, una sorta di percorso segreto che il poeta ancora non mette in luce e che è l’aspetto della autoanalisi sentimentale (l’aspetto più privato), quella autoanalisi che segue con grande partecipazione i tormenti dell’adolescenza e vi medita sopra. E’ da questo registro personale e sentimentale che nascono tra il 19 e il 21 gli Idilli. Già il termine “idilli” presenta una scelta in minore (idillion significa “scenetta, piccolo quadro, ed è nella gerarchia dei generi ben inferiore come qualità alla poesia epica e tragica). E’ pur vero però che gli idilli nell’accezione leopardiana non si limitano a descrivere come avevvano fatto Teocrito o Mosco, a descrivere un quadretto naturale, ma esprimono <<situazioni, affezioni, avventure storiche del mio animo>>, dove storiche non significa importanti, bensì nel tempo, nella vita, nel quotidiano. Gli idilli sono 5: l’Infinito (19), la Sera del di d festa (primavera 1820), Alla luna (1819), Il sogno (1820), la vita solitaria (21). Sono scritti dunque tutti e 5 in questo breve arco di anni e si tratta quindi di sentmentalismo molto personale e non vengono pèubblicati subito; vengono pubblicati sul “Nuovo ricognitore” (rivista Milanese) un po’ dopo e compaiono nell edizione Bolognese del 1826 (Giacomo Leopardi, versi).
Leopardi indossa adesso una maschera completamente diversa da quella che ha indossato al tempo delle canzoni; il tono diventa più visino al vissuto, alla sua esperienza personale. Si sviluppa a contatto con la vita presente. Inzomma è una poesia del quotidiano di Leopardi, e infatti ci si accorge subito che non c’è più quel ricordare continuamente il apssato, ma c’è negli idilli un tempo presente, vissuto: la siepe, il vento, il balcone della stanza, la luna, l’ambientazione è dle vivero quotidiano del poeta. L’ambientazione non è solo lo sfondo delle meditazioni ì, ma è l’oggetto, l’obiettivo del suo pensiero, nel senso che la voce che parla ha bisogno solo di questi oggetti per svolgere un racconto, una storia intorno ad un unico ogggeto : se stesso. Quindi si passa dalle canzoni agli idilli si apssa da un io astratto ed indefinito che aveva bisogno di tante personificazioni (bruto, safo), o di avre degli interlocutori come mediatori, si passa ad un io caratterizzato biograficamente, da esperienze ben precise. Nasce dunque una storia interiore, la storia interiore dell’io di Leopardi, che nasce non proiettata sui simboli del passato, ma a contatto con la realtà presente. Da questa realtà presente (gli orti, la siepe, i campi), da questa realtà che lo circonda materialisticamente, parte l’io del poeta, la percezone del poeta, verso le regioni della memoria e del sogno. Quindi la proiezione immaginativa, l’immaginare, quello che Leopardi riteneva (ella prima parte della sua poesia) generata dal passato, dagli antichi miti, ora invece questo immaginare deriva dal presente e dalle cose comuni. E’ un relativismo… in tutti gli idilli la dimenzione del presente viene costantemente messa in rapporto con il passato individuale per sottolineare proprio quel concetto su cui ho un attimo calcato la vooce, ovvero le “avventure storiche personali” che acquistano un valore temporale preciso, che non hanno più bisogno di un autentico passato ideale. Ciò che si fa sentre negli idilli è una nuova concezione del tempo. L’infinito è diventato ne corso dei secoli il manifesto della poesia leopardiana, perché racchiude in un giro serrato, calibrato di soli quindici versi il racconto di un’esperienza del pensiero che viene preannunciata dal titolo e poi riaffermata con valore crescente nello volgimento del testo. Dall’infinito silenzio, all’eterno, all’immensità. Intendo dire.. Con una assoluta economia di mezzi, con una presenza minima di oggetti reali (il colle, la siepe, il vento, le piante) Leopardi riesce ad esprimere il passaggio prima dallo spazio chiuso, circoscritto allo spazio indefinito, e poi da una sensazione acustica reale, precisa (come “il vento odo stormir”) ad una sensazione acustica del tutto indeterminata (“l’infinito silenzio”= in modo da far coincidere un infinito dello spazio con un infinito del tempo, i quali dominano, gravano sul presente annullandolo, cancellandolo 8e mi sovvien l’eterno e le morte stagioni, e la presente e viva e il suon di le). Così’ al pisto di quel contrasto fra passato e presente che abbiamo visto nelle canzoni, ora troviamo invece un contrasto tra quello che c’è, che cade sotto i sensi, e quello che non c’è; e quello che non c’è, solo la mente lo può creare, e questa creazione (io nel pensier mi fingo- fingere significa scolpire) mentale genera un piacere talmente alto da confinare con l’annullamento di sé. Tant’è che il “naufragare” è definito con il termine “dolce”. Il primo e l’ultimo verso del testo contengono una indicazione spaziale, accompagnata dal emdesimo dimostrativo (questo= quest‘ermo colle , questo mare), dunque il colle è il luogo reale in cui si sviluppa grazie all’attività della mente l’esperienza dell’infinito. Il secondoè il luogo altrettanto reale dove questa esperienza dell’infnito ha condotto il soggetto poetante, che descrive un colle, una siepe e si ritrova annullato nel grande mare dell’essere, che però non è oggetto della percezione oculare, il mare infinito è solo immaginato tramite la mente. Quindi il primo spazio è un luogo concreto, l’altro è indefinito, metaforico, cioè uno spazio dell’immaginazione, finto dall’immaginazione, anche se entrambi i luoghi sono reali per il poeta, reale alla percezione dei sensi il colle, reale alla percezione dell’immaginazione il mare. L’infinito dunque è l’oggetto di un processo di conoscenza che ci viene narrato in tempo reale, man mano cioè che si svolge il discorso della poesia. A poesia fa accadere questo avvenimento storico e lo registra, la poesia è l’accadere d questo spaesamento di sé, di questo allargarsi dell’io che dalla siepe arriva al mare e si perde totalmente. E’ importante fare anche una precisazione: poco più di un anno dopo la composizione di questo idillio Leopadi si affretta a specificare che l’uomo non può conoscere o immaginare l’infinito, l’unica cosa che l’uomo può conoscere analogo all’infinito è l’indefinito e il piacere deriva proprio dal contrasto, dal fatto che l<<l’anima non vedendo i confni, riceve l’impressione di una specie di infinità, e confonde l’indefinito con l’infinito, non però comprende ne concepisce nessuna infinità>>. Al massimo quindi la sensibilità dell’uomo può conoscere un senso di vaga indefinitezza. Questo pone le premesse per farci dire che questo idillio rappresenta un’esperienza unica, il racconto di un’illusione eprsonale, creata dal pensiero, che però istantaneamente pensiero riconosce come “vana”, tanto che il ragionamento procede quasi rinnegando la sensazione di piacere legata al momento iniziale (lanciarsi al di là della siepe). Nello Zibaldone dice <<nelle immaginazioni più vane ed indefinite e quindi più sublimi e dilettevoli, ò’aima sente una certa angustia, un certo desiderio insufficiente>>. Un elemento importante è che dopo aver aperto questo importantissimo spiraglio su una esperienza privata, individuale, Leopardi la arrichhisce con altri particolari, perché la poesia l’infinito è solo un punto di partenza, “non è una poesia dedicata ai sentimenti, ma è dedicata al pensiero, cioè al modo in cui il pensiero può superare la ristrettezza del mondo reale, in cui il pensiero può essere la grande risorsa del’umanità per liberarsi dal gioco, dal tormento e dai limiti che ci circondano”.
Dunque questo che è il primo degli idilli segnala, esprime il riaffacciarsi, il rigenerarsi della vita senza più la pretesa di comprenderla.
Anche attraverzo uno studio della metrica, rilevando cioè la distribuzione delle pause e delle parole che imprimono al discorso in generale un andamento ondulato (ad onda), proprio guardando a questo aspetto dell’organizzazione ritmica e metrica dell’infinito, il lettore viene come sollecitato, spinto a rivivere insieme al poeta un’esperienza eccezionale che consiste in un pensiero in movimento, dinamico che coglie in un solo istante la coesistenza di finito e infinito, di visibile ed invisibile, e coglie anche la dilatazione e la concentrazione dello spazio e del tempo. Tutto questo è giocato intenzionalmente su una serie di contrasti, contrasti tra immobilità e movimento, fra spazio e tempo, fra passato e presente, tra finito ed infinito, fra ragione e sentimento, apertura e chiusura, vita e morte. Attraverso questa serie programmatica di contrasti l’infinito serve al poeta a delineare un processo di conoscenza congiunto ad una vigorosa sensazione di piacere e di dolcezza. Un piacere ed una dolcezza che vengono comunicati al poeta stesso dalla sua creazione poetica. Fu probabilmente il primo degli idilli composto. E’ il testo in cui più viva si coglie l’intenzione dell’autore di tradurre l’esperienza del suo animo attraverso un uso molto specifico dei mezzi espressivi, cioè della sintassi, della metrica, della retorica, e della linguistica. In nessun altro testo di Leopardi si ha un uso così alto e singolare di tutti i mezzi espressivi. Addirittura dei punti e delle virgole, delle pause interne al verso,. Questo significa che con l’esperimento dell’infinito Leopardi riconosce alla parola in sé uno specifico statuto valore emotivo e conoscitivo. Perché è la parola e solo la parola che si propone dentro un percorso di creazione (io nel pensier mi fingo) come il veicolo, lo strumento che chiarisce da solo (senza richiami extraverbal), spiega l’essenza del canto stesso. E’ un insieme perfettamente autonomo, trova nelle sue stesse parole trova le ragioni e il significato di se stesso. E’ in più un premio che il poeta fa alla sua capacità, cioè il poeta enuncia quale grande piacere procura l’esercizio della poesia, e lo dice attraverso la poesia stessa; lo dice fra l’altro in un brono dello Zibaldone del 1 Agosto 1821: <<circa le sensazioni che piacciono per il solo indefinito: per questo puoi vedere il vero idillio sull’infinito e richiamare l’idea di……. E quella di un filare di alberi il cui fine va a perdersi di vista…. Una torre veduta in modod che ella appaia solo dinnanzi all’orizzonte… produce un contrasto sublime tra infinito e finito>>. L’argomento di questo brano è il piacere che si genera tra il contrasto tra due stati diversi; il contrasto si attiva perché a un certo punto la vista non può proseguire. Mentre la vista e i sensi sono in atto, allora si prospetta una campagna, il filare degli alberi ecc, però ad un certo punto si verifica un’interruzione di questa percezione: l’impedimento che ostacola il continuum della percezione, determina una specie di momentanea stasi nel rappresentare il paesaggio circostante. Ed è proprio in questo momento che subentra un altro tipo di esperienza sensitiva, un altro tipo di esperienza percettiva, ovvero quello dell’immaginazione, che permette alla percezione di andare al di là del limite imposto dalla realtà. L’infinito non ouò essere altro che il prolungarsi di questo contrasto, di questo sbilanciamento verso un punto di fuga che è solo mentale, immaginario, il che significa “errare”, un andare al di là di ogni confine intellettivo, conoscitivo, dove non si riconosce più un limite che possa circoscrivere, impedire le percezione del proprio animo. Vedremo che il piacere scaturisce da questo tipo di contrasto. Un anno prima di scrivere quel passo che vi ho appena letto dello Zibaldone, nel luglio del 20 il poeta aveva scritto un altro brano molto importnate su quella che è la tendenza innata verso il piacere: <<vediamo all’inclinazione dell’uomo all’infinito. Indipendentemente dal desiderio del piacere esiste nell’uomo una facoltà immaginatoiva che puiò concepire le cose che non sono e in un modo in cui il reale non è, considerando la tendenza innata dell’uomo al paicere è naturale che l’immagina…………. L’immaginazione può figurarsi piaceri che non esistono…. Il fantastico sottentra al reale, l’anima si immagina quello che non vede, e va errando in uno spazio immaginario e si figura cose che non potrebbe se la sua vista si estendesse al tutto, poiché il reale escluderebbe l’immaginario…... L‘immaginario imepdisce di veder econfini alle proprie percezioni,>> Il paicere sta quindi nel vago, nell’indefinitezza.
Per la tendenza dell’uomo all’infinito. L’antico non è eterno, e quindi non è infinito, ma il concepire l’anima uno spazio di molti secoli, produce un sentimento infinito. Un tempo indeterminato dove l’anima si perde. E se ben sa che vi sono confini non li discerne.. La molteplicità delle sensazioni e le sensazioni indefinite producono piacere perché c’è questa tendenza naturale dell’uomo all’infinito. Possiamo trarre una prima conclusione e cioè che il contenuto dell’Infinito lo si può definire come il racconto di un viaggio immaginario lungo le cui tappe l’io del poeta nel eprcorso di andata si smarrisce nella vastità e lontananza dello spazio, poi nel viaggio di ritorno attraverso lo stimolo di una percezione precisa (uditiva- lo stormir dei rami) si rinviene, si riconosce nel flusso del tempo che dopo essersi dilatato ora si restringe (nel tempo rpesente). E’ qui che si origina il rpimo cntrasto tra indefinito e finito. L’antitesi tra queste due dimensioni percepite dall’animo rappresenta al pensiero l’idea dell’immensità che non è solo quella dello spazio e del tempo, ma anche quella del proprio movimento interiore, che fluttua, ondeggia tra diverse sensazioni di piacere, dove il pensiero si immerge, si sprofonda per poterne assaporare l’essenza. Dalla consapevolezza di essere vivo e presente, pronto a cogliere l’esistenza per quello che essa offre, esprime, giunge a compimento il viaggio della mente dentro l’infinito. La creazione dell’Idillio come lirica compiuta è la creazione di un viaggio testuale parallelo a quello fantastico e immaginativo del protaginista che è alla ricerca del piacere. Comporre e leggere l’infinito significa viaggiare all’interno di queste parole alla ricerca di quello stesso piacere che cercava l’autore. Leopardi si è posto anche il problmea di comunicare il piacere della vera poesia attraverso la scena, la costruzione di contrti pressochè infiniti tra definito ed indefinito e questa scenografia di contrasti è fatta a tutti i livelli: fonico, lessicale, sintattico, contenutistico. Passeggiando non lontano dalla casa del padre ilk giovane Leopardiandava spesso su monte Tavor (kl monte della siepe), un colle caro al poeta perché compagno delle sue solitudini. Vediamo come funzionano i vri livelli di significato orchestrati da Leopardi. L’inizio dell’Infinito si apre con una notazione affettiva (caro colle) sottolineata dall’avverbio “sempre” che indica una lunga durate temporale (intensità) rafforzata dall’unico verbo al passato che è presente nella lirica (“fu”. il verbo invece di fare un momento preciso nella linea del tempo lo diluisce nella vastità di una continuità emotiva. L’ermo colle è l’elemento finito che spicca nella vaghezza dei veris iniziali. In poiù il rpimoverso presenta un’inversione sintattica che pone in primo piani il principale aggettivo “caro” ; “colle” chiude il verso. Il primo verso è l’unico ad avere un senso de tutto autonomo sintatticamente, insieme all’ultimo verso. Il rpimo e l’utlimo verso sono gli univi versi indendenti e contengono le due uniche affermazioni affettive presenti nell’idillio, come se lo volessero chiudere circolarmente, in una sorta di omaggio, tributo al piacere ricavato. Questa leggera inversione sintattica del primo verso che anticipa e segnala un sentimento affettuoso del poeta verso il colle da origine anche a alla famosa “sinuosità del componimento”. Con l’esordio leopardi predispone il lettore a cogliere il valore infinitivo del suo racconto e il contrasto tra infinito e finito. Soprattutto c’è il fatto che apparte l’inversione sintattica, i primi tre versi sono quelli che scorronono più agevolmente; dopo di essi e soprattutto con il “ma” del verso 4 il registro del testo cambia fortemente (variato enl ritmo, più accidentato). Nei primi tre versi Leopardi inserisce 5 sostantivi secondo unos tema che è 2 più 2 più 1: colle-siepe, parte-orizzonte, guardo- tra ils econdo e il terzo endecasillabo si registra la prima infrazione metrico sintattica della lirica. L’enjambemont è una figura metrico retorica, vale a dire quella figura che si realizza tra il verso 2 e 3.. Vale a dire che il verso si interrompe fisicamente, ma il suo senso viene recuperato e completato nel verso successivo. Siamo costretti ad attendere l’inizio del verso 3 per capire cosa significa il verso 2...Il primo sintagma “tanta parte” ha due parole bisillabe, con un accento principale sulla vocale chiara ed aperta “a”; il secondo sintagma “ultimo orizzonte” è formato lo stesso d auna coppia di termini di cui il primo sdrucciolo ha l’accento sulla vocale scura e chiusa (“u””), l’altro invece è quadrisillabo che guarda caso completa con la “o” e la “i” la scala di tutte le vocali. Il suono delle 4 parole “tanta parte dell’ultimo orizzonte”, vette in sequenza le vocali e attiva un processo di dilatazione sul processo acustico, e riesce con i suoi effetti ad ampliare ulteriormente il significato di quello che precede, sia sul piano visivo (perché il verbo escludere da ragione di un contrasto tra chiusura e apertura dello sguardo), ma anche sul pano acustico (perché “guardo” ed “esclude” ripropongono le stesse vocali accentate “a” e “u” che si situano agli estremi della tastiera fonica delle vocali. Quindi diciamo che l’opposizione fra apertra e chiusura delle vocali in questi due versi potenzia l’effetto infinitivo di circolarità, di totalità significante che è già in funzione nei primi tre endecasillabi dell’idillio. Questo è un ritrovato appositamente studiato da Leopardi. Il valore, il significato, la potenza semantica di quei termini che sono separati dall’enjambement (tanta parte e ultimo orizzonte) ne risulta incrementato a tal punto che questo arricchimento del significato investe a ritroso anche il sintagma “questa siepe (altro elemento finito come il colle).
Se concentriamo l’attenzione sui termini “tanta “ e “ultimo” ci accorgiamo che questi sono presenti fra altri in un elenco, indice dello Zibaldone, che <<continene voci e frasi poetiche per l’infinito o indefinito del loro significato>>. Tanta è nell’elenco dei bisillabi, ultima è nell’elenco dei trisillabi. Incece un’altra sezione hanno i quadrisillabi come “orizzonte” (ha la capacità di dilatare la durata fonica del verso). Fra le parole indefinite o infinite presenti nell’indice dello Zibaldone ne troviamo ancora di quelle che sono rpesenti nella tessitura della poesia “infinito”; per esempio “ermo, profondo, eterno, silenzio, morte”. i può dire che lo spazio semantico di questo idillio è completamente ricoperto dalla parole indefinite. Questo significa che la capacità evocativa e durativa di questi termini è messa in risalto dalla lora scelta e concentrazione fortissima.. Sono così tanti i termini indefiniti nella lirica che è evidente essere questo il nucleo significante della lirica (la comunicazione ha più livelli di significato e di significante che si riuniscono in questo senso di vaghezza ed indefinitezza). Insieme a questi termini indefiniti vi sono termini che di indefinito non hanno nulla e che non sono compresi nell’indice dello Zibaldone; sono questi termini neutri ed inerti ad agire come mezzo di contrasto con i termini infinitivi, creando appunto quella contrapposizione tra finito ed indefinito. Ma dire questo significa rilevare elementi che dovremmo chiamare extratestuali. Se noi invece concentriamo l’attenzione sui singoli elementi compositivi riusciamo a capire quanta cura ha usatoo Leopardi quasi a ogni sillaba. Il verso 4 inizia con il “ma” (congiunzione avversativa); questa particella imprime una sorta di movimento centrifugo al discorso perché è da questo momento che l’io del poeta si proietterà nello spazio sconfinato, verso l’esterno da quel luogo circoscritto in cui si trova. Il “ma” segnala il passaggio dal massimo di chiusura al massimo di apertura (dal finito all’indefinito). Dal punto di vista sintattico la congiunzione “ma” serve soltanto ad introdurre due gerundi assoluti (sedeno e mirando): questi verbi sono usati per dilatare la durata temporale dei versi: proprio perché non sono precisati temporalmente offrono una durata temporale senza limite e sconfinata. Il poeta contempla dunque ciò che gli sta intorno. “mira” dice; è un verbo classicheggiante che rendo noon solo l’osservare, ma anche il sentimento di stupore ed ammirazione verso ciò che si osserva, una sorta di estasi visiva. Non è un semplice “guardare, osservare”, è un osservare che al suo interno porta con se anche una sensazione di “stupore”; e non è solo un guardare verso l’esterno, bensì ha anche un riflesso interiore, appunto nello stadio di stupore. Lo sguardo ora oltrepassa la linea di confine rapprasentata dalla siepe e il pensiero può vagare e creare nell’immagionazione, con l’immaginazione, un’idea che si espande sempre di più. L’io quindi di finge, rappresenta, dentro di sé, quindi scolpisce nel suo pensiero. E che cosa si rappresenta nella mente? Interminati spazi, spovrumani silenzi e profondissima quiete. Notate l’accentuazione forte sul timbro vocalico aperto nella sequenza “interminati spazi sovrumani” che intenzionalmente dilata il valore fonico di questi termini e quindi anche il significato vago ed indefinito. Ci sono poi altri due enjambement tra il verso 4-5 e il evrso 5-6, il senso del verso 4 si completa con la prima parola del verso 5... Uguaòle con il 5 e 6. Si isola così la potenza semantica dei due termini che sono in chiusura dei due versi, ciop “interminati” e “sovrumani”. Si determina così una sorta di vorice semantico dentro il qualle l’io del poeta precipita, viene inghiottito, sopraffatto dalla immensità degli spazi e da qiuesti sovbrumani silenzi. Questi lo portano a contatto con la “quieta”, altro termine che non solo sottoline l’idea di un equilibrio tra tutte queste tensioni, tra tutte queste opposizioni (finito, indefinito), ma usa pure i due puntini sopra la “i” per far sentire il dittongo e allungare quindi la parola “quiete”. Questa visione fantasmatica potrta ad una condizione molto particolare… il cuore, metonimia, ovvero parte dell’essere intero e che rappresenta l’io della persona; il cuore giunge qausi a provare timore (SPAURA). A questo punto c’è un punto fermo che divide in due parti l’endecasillabo. Riprendiamo il viaggio dell’io dal verso 4: verificata l’impossibilità di proseguire con o sguardo, gli occhi del poeta non possono che fissare la siepe, fino però ad oltrepassarne la funzione di confine ed ostacolo. Il “ma” è avversativa perché segnala un radicale e profondissimo passaggio dal momento in cui lo sguardo vede e basta al momento in cui comincia a contemplare, cioè ad esewrcitare la funzione del pensiero. Quindi il “ma” segnala il trapasso dal tempo presente dell’io che osserva ad un illimitato futuro, ad una dimensione spaziale senza fine. Del resto la vastità di questa attività dell’io (dell’attiviutà contemplativa) è segnalata anche dal “cumulo di sostantivi”: una triplice forma di infinito: <<quiete, silenzi, spazi>>. Questa è la fase dell’amplificazione verso i confini illimitati a cui segue la chiusura. Una pausa interna, ovvero il “punto e virgola” a metà del verso 7; questo è il preannuncio di una pausa ancora più decisiva a metà del verso 8 con il punto fermo. Dobiamo a questo punto tenere presente altri due brani extratestuali che sono da ritenere chiarificatori; unoi proviene dallo Zibaldone e uno da un operetta morale “il cantico del gallo silvestre”. Il brano dello zibaldone del 1 agosto 1921 <<è notabile che l’anima in una delle dette estasi vedendo per esempio una torre moderna ma che non sappia quando è fabbricata e un’altra antica della quale sappia l’epoca precisa, tuttavia è molto più commossa da quella antica, perché l’indefinito di quella moderna è troppo piccolo e lo spazio, benchè i confini non si discernano, è tanto angusto ce l’anima arriva a comprenderla tuttas. Ma nell’altro caso lo spazio è così ampio che l’anima non l’abbraccia e vi si perde>>. Quello dal “cantinco del gallo silvestre”: <<e nel modo di garndissimi regni ed imperi umani non resta segno alcuno, parimente del mondo intero e delle infinite vicende e calamità non roimarrà nemmeno un vestigio. Ma un silenzio nudo e una quiete altissima empiranno lo spazio immenso >>. Notate che in questa ultima frase ci sono i tre sostantivi dell’infinito “silenzio, altissimo, quiete, spazio. Enll’idillio l’uso del plurale serve per rendere più poetiche le parole. Anche il sueperlativo aiuta. Il brano dello Zibaldone serve anche a farci capire il significato dell’endecasillabo costruito attorno ai versi 7 e 8. Qui addirittura alcuni critici hanno sottolineato l’accumulo di ben vocali “o” di cui quattro sotto accento, che secondo alcuni sembrano evocare quello stato di meraviglia che era già nel termine “mirando” che è uno “stato di meraviglia sperimentato dal cuore”. Siamo oltretutto al centro goniometrico del testo e c’è una pausa metrica e sintattica del punto fermo che cade a metà del verso 8. Tanto che si realizza una struttura simmetrica di altissima simmetria dove c’è un parallelismo, simmetria tra le parti addirittura matematico. Lo schema è 7 endecasilabi + un settenario (emistichio mezzo verso), la parte successiva è costituita da un emistichio + 7 endecasillabi 8costruzioen circolare o quadrata). In più si crea un’onda che progressivamente va verso la consocenza o meglio ancora, verso la non conoscenza. Errare, andare oltre ogni confine verso un punto di fuga di cui non si vede la fine, tendente all’infinito ha comportato nel poeta l’impossibiità di trovare un appiglio dentro di sé che potesse in qualche modo arginare, fermare, trattenere la sua attività immaginativa. Sul piano formale dunque il punto fermo del verso 8 riproduce a livello formale quello che è avvenuto a livello di contenuto con l’esperienza immaginifica. Il cuore percepita la paura di perdersi nell’infinito spazio-temporale ha avvertito la necessità di trovare una pausa per questo suo tumulto interiore. Si è fermato all’altezza del verso 8, il centro, il nucleo di questa struttura ad onda. La congiunzione “e” che troviamo dopo serve a sancire un nuovo inizio, ma non un inizio brusco come quello del “ma”, bensì introduce un’idea di continuazione, di progressività (introduce una coordinata di solito, quindi un prolungarsi del medesimo stato). L’io ha riconosciuto in questo momento un suono familiare che proviene dal mondo esterno e allora intuisce in modo quasi fulmine che il prprio timore si inserisce nella vita che scorre perennemente. E questo suono lo richiama allo stadio presente. Non appena il soggetto ha udito stormire il vento fra le piante (e dice fra “queste piante” l’io è tornato al presente) scatta il paragone fra l’infinito silenzio e questa voce; si ripropone il contrasto tra apertura e chiusura, tra indefinito e finito, il soggetto ora procede in senso inverso rispetto alla prima parte del testo. Il suono del vento fra lke foglie è l’indicatore esatto del tempo presente da cui l’io non si stacca più in questo eprcorso di immersione fantastica nel tempo passato. Dunque, nel paraonare il silenzio assoluto della quiete al fruscio delle foglie l’io si sovviene (e mi sovvien) , si ricorda, si rappresenta nella mente il tempo infinito, ma anche le “morte stagioni e la opresente e viva e il suon di le”. Qundi il contrasto, la convergenza (nell’immaginario dell’io) del passato del presente e del futuro, contemporaneamente. C’è un brano nello Zibaldone che ci fa capire quanto Leopardi ami rappresentare un momento di stacco verso l’infinito agganciato alla sensazione fortissima del rpesente (parte sempre dalla suggestione naturalistica e poi si lanciano in voli iperbolici della mente e della ricordanza). Questo brano << dolor mio nel sentire a tarda notte il canto notturno dei villani passeggeri infinità del apssaoc he mi veniva in mente, ripoensando ai tanti avvenimenti ora passati che io paragonavo a quella rofonda quieta e silenzio della notte>>. E’ una voce che innesca il processo di immersione nel più lontano passato. Quindi Leopardi sperimenta una sensazioni di estrema chiusura ed apertura, euforica (verso l’esterno) e disforica. Il piacere e la felicità che è rappresentata nascono dal contrasta tra l’entusiasmo di ritrovarsi e il timore dello smarrimento, perché <<l’anima riceve vita dalla stessa forza con cui sente la morte perpetua delle cose>> (zibadone). C’è un’altra pausa a ivello formare ametà del verso 13. L’effetto è lo stesso di quella dell’8 ma il significayto èp diverso. Adesso quello che deve risaltare non è più la apura, bensìla vitalità di questo suono che si avverte tra gli alberi; è il momento in cui l’io assapèora la vitalità, l’importanza, la positività di uno spazio ben conosciuto e circoscritto e di un tempo che viene riconsquistato temporaneamente. Esiste in effeti un divario molto grande tra passato e presente, un contrasto tra la morte (il passato) e la stagion presente (il presente), nel momento in cui l’immaginazione abbraccia l’infinito silenzio e le parole del vento (IL CONTRASTO DELLE DUE SITUAZIONI).. Mentre tutto si muovo il soggetto non prova più timore tanto è intensa la percezione del piacer che è legato al suono della natura, della vita che c’è, che esiste. C’è un ultimo enjambement che separa aggettivo e sostantivo dilatando questa parola ossitona e molto chiara dal punto di vista vocalico (timbro vocalico accentuato sula finale<) e serve a ricomporre proprio il contrasto tra finito e infinito. Notate “naufragar m’è dolce in questo mare”: questo verso chiude circolarmente la composizione poiché si ricollega verbalmente al primo verso da due punti di vista: dal punto di vista del contenuto affettivo (mi fu caro- m‘è dolce) e dal punto di vista del suono, fonico (questo mare, quest’ermo colle). Circolarmente si passa dal finito all’infinito, si assa dal luogo più circoscritto che esista (ll colle), al luogo metaforicamente più espanso e dinfinito che esista (il mare); anche se è stato notato che in questo mare dell’infinito c’è il ricordo di un0esperienza di un ricordo fisico (non è totalmente metaforico), trattiene un chè di concreto., di reale. (noi lo ritroviamo con i soliti termini nelle “ricordanze: <<e che pensieri immensi, che dolci sogni m’ispirò la vista di quel lontano mar.. e che di varcare un giorno io mi pensava>>). La dolcezza del mare è un termin che Leopardi recupera dagli antichi <<gli antichi ci rapiscono e ci sublimano e ci immergano in un mare di dolcezza>>. Il mare è quindi un rapimento e dun abssamento dell’io, sprofondante nella situazione di dolcezza -liquefazione totale dell’io del poeta. Nel finale il poeta si risolve nella scomparsa dei limiti tra finito ed infinito, tra la realtà finita e l’infinito immaginato dal pensiero. Questo viaggio fel poeta è ance il viaggio della poesia: grazie all’immaginazione il poeta oltrepassa la siepe per scoprire una regione inesplorara dell’anima, per scorgere una belleza del tutto nuova. Il risultato finale di questo doppio viaggio (della pesia e del pota) è il piacere infinito che si ricava dal sentire intrecciando la natura parlante, l’immaginazione vaga e i sentimenti personali. Che altro vuol dir essere in pieno equilibrio se non essere quieti? E qual’altro è lo scopo della poesia se non commuovere? Vi leggo un brano nel quale Leopardi da la chiave interpretativa dellInfinito partendo da una delle sue fonti L’istoire de corinne di madamm .. Dove il rapporeto tra la realtà fisica del mondo e l’attivitrà trasfiguratrice è evidentissima e ci suggerisce auanta abbia pesata nell’ideazione.
Riprendiamo un seconda la Sera del di di festa. E’ un testo che contiene molte riprese dei temi dell’infinito. Anche se i due testi intimamente collegati sono giocati attorno a concetti e strutture profondamente diversi. Semplificando si potrebbe dire che l’infinito è un sistema di pensiero, la sera del di di festa è un sistema sentimentale. Avrete notato infatti che la sera del di di festa come il Sogno e AL vita solitaria ha un’impostazione di canto d’amore, e infatti in questo canto Leopardi entra appieno nel vivo della sua interiorità, individualità personale e la espone pur semza rinunciare a un ragionamento, a un pensiero di fondo. Va anche detto che proprio questo legamento, questa amalgama che si realizza tra pensiero filosofico e sentimento individuale fa si che gli idilli (amneo alcuni) siano una novità nel panorama ottocentesco della poesia. Avete visto che nella sera del di di festa il discorso inizia con la descrizion di un notturno, che è dominato dalla luce lunare. Abituati agli ostacoli, ai contrasti dell’infinito,npotiamo invece che qui il pesaggio è senza ostacoli, è libero, solo che improvvisamente su questa visioe libera e tranquilla Leopardi inserisce il pensiero di una donna invocata con il possessivo “mi” e quindi oggetto d’amore. Solo qui per la prima volta compare nel tessuto dei canti, nel segmento degli idilli, il tema del sentimento amoroso. A dire il vero Leopardi si era gia occupato di qusta tematica (sulla donna), ovvero nella poesia precedente (componimento giovanile) del 17, “il primo amore”, che però verra inserità nell’insieme dei canti solo molto tardi (edizione del 1831). Questa temayica è d’alòtronde decisiva nell’insieme dell’opera, intsnto perché attraverso il tema del sentimento d’amore Leopardi recupera temi che avevano grande fortuna nel panorama letterario europeo (Goute e Foscolo). Negli anni 1832-32, i canti diventano anche un libro sull’amore e non soltanto una meditazione filosofica sul tempo e sullo spazio, amore rappresenatto sempre con implicazioni filosofiche e teoretiche ma che diventa sempre più invasivo nella poetica. Quindi dopo aver descritto la notte con la luna, Leopardi si rivolge alla donna (inconsapevole di piacere al poeta- gia non sai qauta piaga mi apristi al petto). Subito dopo Leopardi mette in scena un terzo personaggio, un personaggio che è presentissimo nelle canzoni degli anni 21 22 (ultimo canto di saffo ecc), overo la Natura, considerata come causa unica di assoluta infelicità (io questo ciel che sì benigno… e l’anitca natura onnipossent che mi fece all’affanno). Questi due elementi che caratterizzano la natura, l’onnipotenza e la malvagità, sarà poi oggetto della riflessione poetica e filosofica di Leopardi, in moltissime pagine dello Zibaldonee in numerosse Operette Morale nel 23-24. Tuttavia il poeta non si ferma su questa idea (sull’nnipetenza e la malvagit), la sorpassa velocemente tronando al pensiero della donna, che forse sta sognando tutti coloro a cui è piaciuta durante i giorni della festa mentre il poeta si trova escluso dal suo pensiero. L’essere esclusi dalle tensione della donna ed essere perseguitati dalla natura sono grossomodo la stessa cosa, si trovano sullo stesso piano di significati. Comunque è evidente che il discorso di Leopardi non si limita a questa presa di coscienza e ancora molto rapidamente in un breve giro di versi si sposta su un altro motivo di meditazione. Quello che potrwemmo chiamare “il motivo del tempo che cancella tutte le tracce dell’uomo sulla terra”; a introdurre questo tema, come era già accaduto nell’infinito, è anche qui una percezione sonora, acustica: una di quelle percezioni Leopardi nell’indice dello Zibaldone definisce vaghe, indefinite, quindi portatrici di illusione (per la viaodo non lunge il solitqrio dell’artigiano che viene a trada notte…. Tutto al mondo passa e quasi forma on lascia). Leopardi non spiega perché il canto udito in lontananza provochi il dolore per la fine di ogni cosa. Perché in realtà il nesso tra suono e consapevolezza della fine di tutto è in realtà una delle spiegazioni contenute nella materia dell’infinito. Un suono udito in una dimensione indistinta, com’è quella dle buio e della notte, senza che si possa riconoscere l’origine, la onte, per pura ragione di affinità di pensiero evoca “l’eternità” 8e se ne porta il tempo ogni umano accidente). L’atenzione di Leoprdi per i giorni di festa, per le ricorrenz, questi che sono momenti privilegiati, eletti dentro lo scorrere uniforme ed indistinto del tempo è sempre connessa in lui ad un doppio movimento, quello dell’immaginazione liberatoria, creatrice e quella del pensiero che la rinnega e la contrasta. Il giorno di festa tanto immaginato (moltiplicato nell’immaginazione), produce un piacere illusorio, da solo l’illusione di un tempo che dura, di un tempo che si può anche rinnovare, ma che in realtà è destinato a finire nell’uniformità e nella dimenticanza, nell’oblio. Questo è il tema dell’illusione/reatà che fonda il “dialogo di un viaggiatore con un venditore di almanacco..??” Al dolore per la fine di ogni cosa umana consegue anche in modo un po’ inaspettato il motivo del compianto doloroso, della commozione per la fine non più singola ed individuale, bensì per la fine della grandezza degli antichi. Lo scorrere del tempo non coinvolge solo l’io del poeta, bensè tutte quelle illusioni sulle quali si basava. <<or dov’è il suon di quei popoli antichi?? Ecc e l’armi…>>. Al rumore prodotto dalla fama è subentrato oggi il slenzio, il mondo è impassibile <<tutto è pace il tempo e tutto posa.. E più di loro non si ragiona>>. Anche la virtù degli antichi, ovvero la possibilità di acquisire una fama eterna è scomparsa, e quii anche nella sera del di di festa dura il tema morale della decadenza del presente. A questo punto l’ultimo movimento del testo dopo che c’è stato questo passaggio dal registro sentimentale a quello filosofico, si torna poi ancora alla sfera individuae, in particolare la sfera del ricordo, della memoria. Leopardi ha solo 21, ma vuole inserire un ricordo di un epoca precedente alla sua(la prima età). Quando il bambino aspettava con grande desiderio i giorno festivo e poi enlla notte che seguiva provava lo stesso dolore che prova ora da adulto. Quindi il componimento si chiude sul tema della disillusione , dinuoivo con la percezione di un suono della notte. La sensazione del suono lontano che scema, e quindi la sensazione dell’indefinito, (e quindi piacevole) si ribalta con un sentimento di morte (di un affievolirsi a poco a poco). Si può dire che con La sera del di di festa Leopardi abbi costruito con gli stessi materiali dell’infinito un secondo canto molto più esplicito ed autobiografico ma nel contempo filosofico e meditativo. E’ un canto che si rpesenta anctico enlle premesse, nuovo, moderno nella seconda parte (il tempo, la morte). Questa compresenza di eleemnti individuali-sentimentali e filosofico-generali sono ache nel canto che segue, il 14 esimo, che sembra proprioa sua volta riprendere un frammento, una parte del di di festa e rielaborarla. Questo 14esimo idillio, “Alla Luna”, questo titolo è il titlo che s ha solo nell’edizione definitiva; ma anche la sua consistenza (16 versi), è una consistenza propria d questo testo solo enll’edizione definitiva. Infatti esiste una prima versione di questo canto che s’intitola”La ricordanza” nella quale mancano due versi. Qui è ingioco il tema dle ricordo che percorre tutto il componimeto come mostrano i vari tempi utilizzati dal poeta (io mi rammento, la ricordanza, il rmbembrar). Anche qui la meditazione nasce dalla vista di un notturno, in particolare la vista della Luna che domina la notte e che il poeta osserva intensamente dalla sommità di un colle (lo stesso colle dell0Infinito). Quest visione attuale, presente (la visione della luna), proietta subito il poeta su una visione passata, dell’anno precedente. Dice che sia nel rpesente che enl passato la sua visione è la stessa, la sua condizione è la stesa e che i suoi occhi sono ed erano coperti di lacrime. Quindi una situazione dolorosa, negatova, che consente però uno spazio a un minimo di piacere, piacere dato dal ricordo, dalla memoria. Infatti si capisce che Leopardi vuole dare un’un importan, un rilievo forte al ricordo nella vita umana e ai veri 13 14 afferma che <anche durante la giovinezza, quando i ricordi sono pochi e la memoria è breve, è ugualmente gradito il ricordo persino del dolore passato, anche se questo dolore dura ancora,.. È il ricordo in se che ha un valore. Dopo un’affermazione abbastanza paradossale come questa si vede che questo idillio contiene due immagini sovraèpposte del ricordo: il rpimo il ricordo vicino che lega un anno all’altro, il secondo è invece un ricordo più ndistante dove si parla della gioventù come se fosse già finita. Quindi in un breve giro lirico Leopardi riesce a darci un’espressione molto complessa della propria vita interiore, ce la mostra al presente am contemporaneamente vi aggiunge una considerazione che consente di proiettare nel passato tutto il presente. Facendo così il discorso di Leopardi si apre all’idea dello scorrere uniforme e doloroso del tempo, scorrere dentro il quale si può aprire uno spazio illusorio, piacevole, confortante, che è quello del ricordo. Il ricordo può essere messo con il tempo ciclico della luna che non a caso è uan spettatrice invocata fin dall’inizio e definita pur sempre con due attributi, con due aggettivi che esprimono affetto, ovvero graziosa e diletta. Ci swono anche vari elementi che vanno sottolineati : anche il canto alla luna è costruito, al pari dell’infinito e della sera del di di festa, su un cntrasto, su un confronto: l’infinito era il confronto degli spazi immaginati con la vista breve legata alla siepe, la sera del di di festa era orchestrata come canto sulla contrapposizione del breve volgere del giorno estivo contrstato con l’idea dello scorrere di tutte le cose (con il silenziod ell’oblio), qui invece il contrsto è fra il sentimento presente (lo sguardo della lua e lo sguardo rivolto l’anno prima e fra dolore attuale e la luce, il piccolo piacere, del ricordo del passato. Considerando anche il titolo alcuni critici hanno poensato che vi fosse una sorta di ossessione, di fissazione di Leopardi per gli anniversari, per le ricorrenze, tanto che critici di grande valore riferivano esplicitamente la sera del di di festa al compleanno del poeta (1819) o addirittura alla ricorrenza del tentativo di fuga da >Recanati. Inrealtà a Leopardi non interessav legare un pezzo del suo immaginario ad una data o ad una proprio ricorrenze; in realtà lui sta facendo un discorso generale sulla sua giovinezza (quei segnali di infinito che può dare la giovinizza tramite il ricordo di sé all’uomo durante i giorni di riposo). Un tensto da riferire alla lune è un testo dello Zibaldone <<E’ pure una bella illusione quella degli anniversari, in cui si discorre della consoazioen del ricordo resuscitato in tgale occasione, allontanarci l’idea della distruzione edellannullamento che ci ripugan e illudendoci sulla rpesenza di qeulle cose che vorremmo reali ora, ma che ci piace ricordare.. Avuti nell’infanzia>>. Il ricordo è quindi la “consolazione” e ci dona l’illusione delle cose piacevoli avute nel passato.Questo è il fondamento di quella che sarà il canto della “ricordanze”. Anche qui lo Zibaldone ci chiarisce l’itinerario di pensiero avuto da Leopardi: <forse la massima parte delle immagini e sensazioni indefinite che noi proviamo dopo la fanciullezza,non sono altro che una rimembranza della fanciullezza, proviamo quella sensazione di felicità perché la ricordiamo e ci si rappresenta alla fantasia quella felicità di fanciulli>.
Dopo l’idillio “Alla Luna”, si ha quel testo giovanissimo inttolato “Il Sonno”. Non lo leggeremo. Ne parleremo soltanto, per varie ragioni. Per rpima cosa si tratta di un testo troppo acerbo per Leopardi, per certi aspetti acnhe abbastanza goffo nella realizzazione. Lo si contiene nella raccolta (e lo si colloca in questa posizione) a causa del suo svuluppare normativamente e in forma dialogica (quindi molto familiare), il tema del rapporto tra la vita e la morte, e quindi noi capiamo anche che il sogno e l’idillio immediatamente seguante (la vita solitaria) vanno di parallelo, solidificano la stessa tematica, anche se La vita solitra, mostra una maturitù e una capacità rappresentativa più elaborata. “Il Sogno” mette in scena un colloquio ideale con una donna (potremmo dire quella stessa entità, personificazione che nellaSera del di di festa risultava lontana e indifferente. Qui Leopardi fa ancora peggio, perché a figura femminile qui evocata che è presente solo nella dimensione onirica (ovvero del sogno) è una donna morta (nei versi 7 e 8 si chiama “simulacro”). Qunto all’educazione sentimentale che Leopardi avrebbe avuto da questa donna si hanno molti dubbi. Il dialogo ideale tra uomo e donna avviene fra due innamorati destinati comunque al dolore della separazione. Quindi si tratta di un dialogo paradossale, sul modello dei classici come quello del dialogo tra vivi e morti che era stato scenato da Luciano di Samosata e da molti altri autori classici. Dialogo paradossale tra vivi e morti che sarà a centro di una celebre operetta morale, il dialogo di Federico mush e delle sue mummia”. In questo dialogo disperato tra i due amanti, può essere considerato una sorta di drammatizzazione di azione scenica; assumerà invece aspetto di ragionamento filosofico nel canto Amore e morte”; difatti si può dire che nel sogni si realizza una bree scena drammatica dove si alternano le battute di un dialogo, un dialogo che culmina in un gesto simbolico, vale a dire nel momento in cui il poeta ottiene il permesso di baciare la donna (gesto sublime tipicamente romantico). La conclusione del testo diventa addirittura macabra, la fanciulla sottolinea di essere un cadavere, e quini l’impossibilità del rapporto se non nella dimensione del sogno << gia scordi o caro che di beltà son fatta gnuda nostre misere menti e le notre misere salme son disgiunte in eterno>>: Capite bene che si tratta di un testo un po’ sbilenco, che sa molto di ardori femminili non disciplinati nemmeno dalla ars retorica. Ben diverso il caso della Vita solitaria, perché vediamo che lo stesso tama sentimentale, il tema dell’amore, è ordinato e organizzato in u quadro molto regolare, vale a dire una specie narrazione, racconto che va dal sorgere del giorno alla notte, e termina ancora una volta con la presenza tanto amichevole quanto simbolica della luna. Qui si capisce subito che i temi sono più sentititi (molto più sviluppati). Leopardi vuole rappresentare in questo testo la sua personale preferenza per una vita a contatto con la natura, una vita naturale che si opponga alla vita cittadina. Pur nella definitiva e consolidata coscienza che la natura è indifferente ai dolori dell’uomo. E’ quello che si dice appunto nei versi 17-20. Bisogna tuttavia aggiungere una bnotazione importante: l’idillio viene scritto alla fine dell’estate 1821, e questo significa che subito dopo, fra Ottobre e Dicembre dello stesso anno Leoprdi compone le tre grandi canzoni che Leopradi ha messo prima (bruto minore, nozze di paolina, ..) quelle tre canzoni dove l’0esaltazione della morte e l’esaltazione del suicidio sono evocate espressamente. Quindi c’è uan coerenza logica, argomentaiva tra la vita solitaria e le tre grandi canzoni che vi ho ricordato. Infatti il poeta dovpo aver ribadito che la natura non mstra verso di lui nessun atteggiante positivo, nessuna pietà, allora difronte a questa consapevolezza è diretta l’affermazione di leopardi: non resta che il suicidio<< e rifugio non resta altro che il ferro>> . Non c’è salvezza per gli infelici se non nella morte e quindi il suicidio diventa legittimo, autorizzato, perché non è più un fatto contro natura, poiché la natura non ha alcuna cura dell’uomo, èp indifferente. Non c’è giudizio dapparte della natura. Sono le stesse idee che aveva espresso nella stanza centrale del Bruto Minore. Gli Idilli rappresentano comunque uno sforzo di resistere a questa visione nichilistica ed oscura, se non certe volte funerea.. C’è sempre nella sua mente una possibilità, perché a questo cupo pensiero di morte e suicidio segue nel testo della Vita Solitaria la descrizione di un contatto che avviene con il mondo della natura., e che può spingere l’uomo, Leopardi, verso la scoperta dell’idea confortante di infinito. Infatit Leopardi rappresenta a questo punto un quadro naturale nell’ora d massimo splendore del sole, quando tutto l’universo sembra fermarsi. Sono i versi 28-32 <<ed erba o foglia non si crolla……farfalla..>>. Qui sono inserite tutta una sequenza di negazioni che sottoline questa idea di immobilità, di quiete. Questa quiete, questo momento che abbimo già incontrato, qiuete dentro la quale il poeta ha la possibilità 8l’unica possibilità) di dimenticare se stesso, come se annegasse nell’infinito, in quella condizione indistinta, con il conforto di questa adesione del corpo con il piacere che pervade la natura. E’ i momento in cui non ci sono più psssioni, onon è attivato il pensiero, la natura diventa un luogo dove provare, sperimentare, uno stato di riposo, di quiete, analogo alla morte, però appunto diverso. Definisce questa quiete “antica”, ovvero vuole indicare una di quelle sensazioni vage, vaste ed indistinte che portano dentro di sé quel rapporto di piacere con la natura. Con uno dei suoi soliti repentini passaggi, subito dopo aver fatto queste consoiderazioni, Leopardi campbia discorso. In contrasto con il pensiero della morte ecco la rievocazione di un amore, anche se quest’amore è visto comenel caso del sogno come una apssione impossibile, poiché oramai lontana nel tempo. <<Amore assai lungi….>> Dunque cosìè la vita solitaria? E’ questa scelta, la conseguenza di una pirvazione dell’amore, e quindi spazio per il ricordo, per la rievocazione di qeullo speciale momento in cui il poeta entrò sulla scena del mondo pieno di illusioni e speranze e di desideri. E’ dunque messo in scena il legame tra emmoria, i ricordi e le illusioni giovanili, che sarà uno dei temi di numerosi altri canti e troverà la sua definitiva espressione nel testo intitolato Amore e Morte, che chiude tutto il ciclo. Questo ci fa capire che noi siamo costretti a legger in questo modo i canti e la successione dei canti, come un sistema di rapproti incrociati e di richiami fra un testo e l’altro, anche se i testi sono l’uno lontano dfall’altro, perché i canti e anche le Operette Morali non sono un’opera che enuncia un pensiero unico, organico e definitivo, m sono un’opera che presenta idee, spesso isolate e spesso mutanti, che cambiano di mese in mese, che sembrano un’affermazione e che nel canto successiivo vengono fatte cambiare di significato e valenza, Questi ci dice pure che i Canti di leopardi sono un’opera mobile, ovvero in continua mutazione. I canti sono quindi effettivamente la trascrizione dei movimenti del pensiero e della vira di Leopardi, non acquistano mai una forma definitiva. Vedremo addirittura che lo stesso suo personale diario, lo zibaldone, si presenta come continuo mutare. Si può definire addirittura un trattato filosofico asistematico, il testo non ah ne un’un introduz ne una conclusione e talvolta i testi ce potevano assumere un valore introduttvo o conclusivo vengono soppressi e cancellati e reintrodotti in maniera diversa. Quindi diciamo che Leoparid è per definizione uno scrittore asistematico, contrario di un’idea enciclopedica e definitoria del mondo, è un autore gia pienamente romantico, perché le sue parole seguono i moti dell’anno emanifestano quindi le contraddizioni interne dell’animo. Gli Idilli, prorpio eprchè con la Vita Solitaria sembrano salvare una piccola luce di speranza raprono un discorso; vale a dire che Bruto minore, l’ultimo cantoi di Saffo ecc, sembrano aver posto una lapide definitiva, invece poi dopo rinasce uno spazio per le illusioni, che non è più il vagheggiamento della virtù degli antichi, bensì il paicere della mente, il piacere moderno della mente, è il piacere dello scrivere poesia, di comunicare anche qui piccolissimi incidenti dell’esistere, e infatti la vita solitaria dichiara il tempo dell’amore è finito, ma il tempo dell’amore resiste, ritorna , esiste ancora nel ricordo. E non c’è soltanto questo. Come se non volesse mai cancella re il legame con la possibilità di amare che è concessa ad ogni essere umano, allora ecco che viene a dire che si può risvegliare nella emnte di ciascuno di noi il ricordo di qugegli amori, di quel passato positivo, grazie ad un’immagine che si può incontrare per caso. Nel cuore si possono risvegliare le sensazioni d’amore in quei momenti privilegiati in cui si scorge un volto di una fanciulla o camminando nelle strade di notte nel momento che si ascolta un canto femminile che viene da stanze lontane (A Silvia). <<A palpitar si muove quel cuor mio di sasso>> : la sensibilità apparentemente morta può tornare a risvegliarsi. L’ultimo blocco della Vita solitaria è dominato dall’immagine della luna, e il poeta si rivolge amichevolmente a lei chiamandola ancora una volta a testimone della sua condizione, e come all’iniziod i questo canto torna uno dei soliti contrasti, cioè l’opposizione tra chi vive in città e di notte compie azioni nefande e il poeta che invece ha scelto di rifugiarsi nella natura. Con questa parte conclusiva la vita solitaria rappresenta la condizione dell’uomo moderno che pur avendo perduto il rapporto con la natura può ritornare al rapporto con la natura attraverso la solitudine e ritrovare quel piacere che credeva cancellato e morto. In una forma molto più lineare che non questo idillio un poensiero delle Zibaldone ce lo chiarisce :<< la nmatura e le cose inanimate sono sempre le stesse, non parlano all’uomo come prima, la scienza e l’esperienza coprono la loro voce, ma pur nella solitudine, in mezzo alle delizie della campagna, l’uomostanco del mondo, può ritornare in relazione con loro, può ritornare in qualche modo fanciullo>>. Qui avete intuito che il discordo sta circolando ad uno dei momenti di svincolo della sua poetica, sta riflettendo sulla funzione della natura. Riflette sul concetto di natura creatrice che a seconda dell’atteggiamento che l’uomo assume nei sui conronti (malevolo o benevolo) elargisce o meno i suoi doni (Idro e Alambert). Probabilmente è la lettura di questi testi che si passa dai Piccoli idilli ai grandi idilli. Leopardi parla della natura come regina, cioè sovrana., di una antura che si occupa soltanto degli uomini felici .. Poi si rivolge alla Luna, benigna delle notti reina, una luna che sembra rimediare con il suo piccolo conforto alla malevolenza della natura. Si tratta di un momento contraddittorio. Perché nella seconda parte dell’anno 1821 Leopardi è in uan condizione di garnde cambiamento intellettuale ed emotivo. Sta capendo che le natura non un principio immutabile e subentra nel suo pensiero un relativismo, una sintonia simmetrica tra uomo enatura che pè tutta del pensiero razionaistico francese di fino 700. La crisi filosofica che si percepisce all’interno degli idilli si riflette poi nel gruppo delle grandi canzoni prorpio dell’anno successivo (21-22).
Non è uncaso che nella vita solitaria nonabiiamo più uan antura universale, assoluta, bensì abbaimo momenti di una vita solitaria svolti nel corso di una giornata; questi momenti della vita sono variazioni su un tema. Il modello potrebbe esere di sicuro il Giorno di Giuseppe Parini. Volevo legegrvi un pensiero dello Zibaldone che è scritto nell’agosto del 21.
<<la solitudine è lo stato naturale di grand parte degli animali e probabilmente dell’umo ancora. Quidni non è meraviglia se nello stato anaturale egli ritorvava la sua maggiore felicità nella solitudine. … Ma anche per altra cagione òla solitudine è conforto all’uomo nello stato sociale nel quale è ridotto..(vita urbana)la presenza e l’atto della società (contratto sociale di Russeau) spegne le illusioni laddove anticamente le fomentava e le accendeva e la solitudine le risveglia la dove anticamente le sopiva. Il giovinetto è felice nella solitudine per le illusioni, le speranzw di qeulle cose che trovera poi vane od acerbe. L‘uomo disingannato sptanco e spento esauruto di tutti i desideri enlla solitudine a poco a poco si rifà, recupera se setsso. E più o meno vivamente risorge .. Ecome avviene questo?? Forse per la congnizio del vero?? Anzi per la dimenticanza del vero! Per quel vano aspetto che prendono le cose sperimentate e vedute, ma che ora essendo lontane dai sensi tornano a passqre per l‘immaginazione e quindi ad abbellirsi, ad abbellirsi tramite il epnsiero dell‘uomo>>
Diamo un’occhiata al testo della canzone…
…. (mancano lezioni sul risorgimento)
IL risorgimento..
D’altronde lo scopo del poeta è quello di dichiarare il cosiddetto “risorgimento dell’immaginazione” e quindi di disegnare un percorso che va da un momento di disperazione, di perdita delle illusioni, a una fase in cui le illusioni, i sogni, le speranze riprendono vita e consistenza. Si riferisce ad un momento di illuminazione e si riferisce anche all’eterno confronto tra desiderio e speranza.( ….). Il componimento esordisce con un rimando temporale al passato e contemporaneamente, dal punto di vista semantico, proietta ogni accadimento nell’intelletto, nell’interiorità.- Quindi non siamo davanti ad uno di quelli iddilli in cui Leopardi esordiva con un riferimento realistico-paesaggistico. Qui invece si ha subito un inizio interiorizzante. Poi usare il passare remoto fa sì che prepari il lettore abbia un suspance, un orizzonte d’attesa, verso il presente. Leopardi dice che credeva che la sua sensibilità non esistesse più (quindi non è che mancava l’intelletto, bensì la sensibilità passionale istintiva ed irrazionale, non sta parlando di cultura)- sensibilità attiva nel periodo antico, classico, primordiale, la sensibilità primordiale. Insieme ad uno sguardo retrospettivo ci da anche poi uno sguardo prospettivo. Poi Leopardi ci fa capire l’accettazione del nuovo stato passa proprio attraverso la negazione, il dolore, attraverso la certezza di non poter aver aiuta dalla natura. Lo stato esistenziale che ha raggiunto è quindi quello “dell’uomo consapevole, maturo”. L’immagine che da di sé è di morte completa (il cuore gelato, il seno irrigidito, il cessare di sospirare..). Quindi è proprio un’immagine di annullamento di sé. Nei versi 19--in poi per un po’ spazia come fa di solito sul mondo a lui intorno, sul mondo naturale. Per ora non ha nemmeno rammentato il risorgimento.<<ma dopo quest’epoca le cose diventano tanto nulla per l’uomo, che l’uomo non sente nemmeno la nullità>>. Leopardi ha raggiounto quella sorta di atarassia propria di chi ha conquistato tutto nella sua vita e non sa più cosa fare. Leopardi dice che il dolore è il vero piacere. Poiché è la spia del sentimento.
(..)
In uno stato che è quello più negativo possibile, la realtà più presente dle poeta, quella realtà di disillusioni, di dolore,; questa condizione è il momento di far rifiorire per effetto di contrasto, di rimembranza, gli anni antichi, lo stato di fanciullezza. Il poeta pone molta cura nel dichiarare la sua consapevolezza di essere un sognatore, un idealista, e si rende conto che l’unica condizione che può avere è quella dell’immaginazione. Quella che è la legge universale e totalizzante del suo mondo: l’infausta realtà, che conduce alla condizione di sventura, di decandenza.. Poi prosegue
…. So che natura discorda che miserar non sa…..
Dicee che tutti noi oramai viviamo nel “vero”… Sa che i sogni che lui si fa, i sogni indefiniti discordano dalla verità. In più dice che la natura è sola, nn ascolta, non prova pietà.. (verso 120). Poi scatta di nuovo lo sguardo retrospettivo.., dicendo che la natura non ha mai cercato di impegnarsi per il bene dell’uomo, bensì opera esclusivamente (v 122) per esser sola. Questa natura non è più la natura cristiana, creata da Dio per dare la felicità agli uomini, la natura diviene una semplice entità naturale che è impegnata nella riproduzione della specie (legge i trattati di Bifon, grandi enciclopedia del sapere scientifico posseduti dalla biblioteca di Leopardi e che sono il fondamento della teoria evoluzionistica di Darwin). Il poeta dice quindic he ha una visione della natura distante ed indifferente. La natura un fenomeno come tutti gli altri, non la dobbiamo noi antropomorfizzare. E’ un semplice evento, un accadimento, un accidente che si preoccupa soltanto della procreazione- solecita solo della procreazione (<<sollecita solo dell‘essere>>). L’essitenza non ha per suo fine l’esistente, né il bene dell’esistente; l’esistente vive solo per l’esistenza. Non punta la natura quindi alla conservazione della felicità del singolo, bensì al bene collettivo, ovvero l’essere, il continuare della specie.
Poi dice ..<<….so che questo tempo presente abietto ignora gli intelletti e le virtù e che persino la gloria, per altro inutile, non èil compimento di una vita dedicata all’intelletto (agli studi)…. Nel verso 144 si chiude la parte negativa del componimento e Leopardi si fissa sull’immagine degli occhi (lo strumento della visione, lo sguardo della conoscenza), occhi che vengono considerati a questo onto come uno strumento che aggiunge cognizione di verità e quindi di solitudine e quindi di sconfitta e quindi di morte,poiché lo sguardo della natura è privo di amore. .
Dunque questo testo segna una nuova stagione, di un atteggiamento che è stato definito eroico dalla critica, è il Leopardi che lotta, che non si suicida come Saffo. Ora passiamo a Silvia.
Questi canti sono stati chiamati canti pisano-recanatesi poiché nascono tutti e cinque dal ritorno dell’ispirazione poetica che come sapete si attiva dopo il soggiorno a Pisa e nella breve vacanza Recanatese che precede il lungo soggiorno di Leopardi a Firenze. A silvia deve buona parte della sua fama ad un atro degli errori di critica: si presenta come una poesia d’amore a prima occhiata. Si rifà alla figlia teresa.. Che era la figlia del cocchiere di Leoaprdi che morì di tisi. Va detto che è sì una poesia d’amore, ma in realtà nasconde molto di più. In realtà questo canto è costruito in modo che la figura femminile che all’inizio sembra presente, ma poi questa presenza si carica progressivamente di valori universali e diventa semplicemente una allegoria e ci si accorge che questa presenza è in realtà un’assenza. Quindi diciamo che il punto di partenza biografico e realistico va trasformandosi, è superato da una dimensione allegorica. Si viene a prlare dle tempo e della morte. Il personaggio di Silvia tesse e canta altro non è che una citazione letteraria (modellata sulla Circe di Virgilio). Silvia come Circi e come Proserpia è l’incarnazioen di una divinità che ha un compito preciso: quello di mettere in contatto il mondo dei vivi con il mondo dei morti; è quindi una divinità ctonia e rappresenta dunque in senso cosmico il ritorno ciclico della primavera 8era il maggio odoroso…). Il ritorno ciclico della primavera o ancor meglio delle illusioni e della vita felice. Comunque sia con la sua morte precoce Silvia rappresenta pure il simbolo, l’allegoria della separazione dell’uomo moderno dalla vita della natura(la celebre invocazione.. “o natura o natura..”). Per cui è evidente che in chiusura del canto Silvia altro non è che l’allegoria della morte, non solo dell’allegoria fisica, ma anche della morte delle illusioni, della fine delle domeniche, difronte all’avanzare inesorabile del vero (versi 60-61: <<all‘apparir del vero tu misera cadesti>>). Leopardi in questo periodo legge Guido Cavalcanti, coluic he è stato il più moderno poeta dell’antichità lui che riflette sul tema dell’amore come morte, dell’amore che uccide e che porta l’uomo ad uno stadio di irrazionalità…A silvia presenta infatti riferimenti alla concezione dell’amore di Cavalcanti. Silvia in più è la personificazione della rimembranza, dell’unica cosa che riesce a portare alla mente i ricordi delle illusioni passate. Anche a Silvio è un tetsto profondamente filosofico, è una sorta di distillato di teorie filosofiche. Erano state le operette morali a portare leopardi a smascherare il vero, a celebrare le illusioni e la morte delle illusioni recupoerando anche molti miti anctichi tra i quli quelli di Proserpina..(riprendendo anche Tasso). LE operette Morali erano state la congiunzione tra conoscenza ed immaginazione, la consocenza del mondo che porta a salvare l’uomo nell’immaginazione, nella libertà assoluta del pensiero. Leopardi era estremamente cosciente di questa sua realizzazione tanto che 10 giorni dopo aver scritto A silvia, scrive alla sorella: <<dopo due anni ho fatto dei versi quest’aprile, ma versi veramente all’antica e con quel mio cuore di una volta>>. Poi possiamo anche riprender edie passi dello Zibaldone: <<ogni uomo sensibile prova un sentimento di dolore una commozione un senso di malinconia fissandosi col poensiero in uan cosa che è finita per sempre… dico di qualunque cosa sogegtta a finire come la vita o la compagni di una persona, la gioventù, usanza, un metodo di vita.>.
Il primo verso è di una ambiguità concertante, poiché lo si può leggere in svariati modi. Se si da un valore di invocazione, si instaura una comunicazione. Se noi invece leggessimo questo primo verso normativamente sembra quasi che il poeta stia parlando con se stesso (romembri ancora silvia): Leopardi presenta quindi la sua sovrapposizione con Silvia, è il giovane morto nell’ifanzia e che dopo ha avuto solo il vero, l’assenza di vita, la morte. E lo suggerisce già nel primo verso ordinando tre semplici parole. Sono presenti citazioni cavalcantiane: io veggio negli occhi della dona mia…>>A margine dello Zibladone addirittura >Leopardi annotà un’un aulti terzina di unsonetto cavalkcantiano alla fine dello Zibaldone..<<come colui che for di vita che opare a chi losguarda come fosse fatto di pietre o di legno che si mantenga solo per meaestria, che porga…..>>
Superando il discorso sulle ricordanze, veniamo a dire qualcosa sul “Canto notturno di un pastore errante dell’Asia”, che è considerato dalla critica un componimento filosofico di una complessità dunque superiore a quella degli Idilli. Anche se il poeta ha scelto ed è l’unico caso della raccolta, ha scelto di far parlare un personaggio umile, un pastore anonimo, attraverso una serie molto ampia di strofe (6 strofe composte di endecasillabi e settenari) e questo parlare del pastore è reso con un ritmo, con una cadenza che è tipica dei canti popolari della tradizione orale come sono quei canti di cui Leopardi aveva preso informazioni su trattati che erano in suo possesso circa la Lingua e i costumi dei Chirghisi (popolazione nomade del sud della Russia). C’è un’altra singolarità: questp è il secondo compèonimento dopo l’ultimo canto di Saffo che nel titolo contiene il termine dell’intera raccolta (“canto”). Probabilmente Il poeta ha scelto questo termine-titolo in seguito agli studi da lui compiuti prima degli anni trenta su Omero e la poesia primitiva. In quegli anni Leopardi lesse molto Giovan Battista Vico e lesse molto uno dei massimi interpreti della poesia greca che è il tedesco Woice. Secondo questi interpreti letti da Leopardi i poemi omerici altro non erano che canti popolari poi sistematizzati e riuniti sotto il nome di un unico cantore in epoche successive. D’altronde nello Zibaldone si sostiene più volte che le forme del canto orale sono all’origine di tutte le letterature, sono le forme spontanee e più caratterizzanti. Dunque proprio per questo il termine “canti” assume un significato pecularie. Mette in relazione con l’oralità e l’espressione della voce. Abbiamo insistito varie volte sulla presenza di voci, canti, all’interno dei componimenti di Leopardi. Qui abbiamo quella verbalità, quella espressività orale tipica della poesia delle origini. C’è dì più oltre questo: l’idea che sta sotto il termine canti si ricollega a quel progetto di rifondazione dei generi letterari che Leopardi si era proposto scrivendo. In questo canto notturno il pastore è in cerca di ascolto da parte della Luna (nterlocutrice privilegiata del poeta). Ma ora questo antico tema lirico (cioè il dialogo con uan realtà femminile lontana e irraggiungibile), invece di essere sviluppato come in precedenza in direzione sentimentale, diventa l’ossatura di un discorso filosofico, e questo ragionamento (Nello Zibaldone è così definito) ha una struttura da trattato filosofico, fatta di parallelismi, di ripetizioni, di partizioni esatte della materia. I versi iniziali contengono un appello alla Luna. <<somiglia alla tua vita la vita del pastore>>. E’ un appello che implica una condivisione di azione una sovrapposizione, una somiglianza tra l’errare del pastore e l’errare della Luna. E’ da questo parallelismo che prende inizio il dialogo. Nel ripetersi delle interrogazioni, delle domande, delle azioni stesse descritte dal pastore è implicito il motivo della noia (senza che per adesso sia reso esplicito) <<ancor non sei tu paga di riandare i sempiterni colli?>. Al verso 16 scatta una domanda diretta:<<dimmi o Luna!>. Questa domanda instaura un forte contrasto con il primo attributo riferito alla Luna, cioè “silenziosa”. Diciamo che la domanda presuppone un sapere da parte dell’astro, una conoscenza delle sorti del mondo e pure un’umanizzazione della luna. Su questo concetto spingono moltissimi sgnali del canto <<tu forse intendi>> <<e tu certo comprendi>> <<tu sai, tu certo>> <<mille cose sai tu, mille discopri>> <<ma tu per certo giovinetta immortal conosci il tutto>>. Questo “dimmi”, questa allocuzione si ripete al verso 129 e si fa una stessa richiesta non più rivolta alla Luna ma rivolta la gregge, il gregge che rappresenta un punto opposto, un concetto opposto a quello lunare. Il gregge cioè è portqatore di un ingenuo non sapere e questa è la sua grande virtù, poiché chi non sa non prova alcuna noia. E’ evidente che passnado dal dialogo alla Luna al dialogo con il gregge si manifesta un intento ironico da parte dle poeta che capovolge radicalemnte la posizione iniziale di interrogazione sapiente, filosofica degli astri, del mondo. Lo sguardo adesso non è più rivolto verso l’alto bensì verso il basso. E quindi nella quarta strofa si esaltava o si descriveva per lo emno il movimento perpetuo degli astri come chiave, come segreto universale. <<di tanti moti d’ogni celeste….>>. Nella strofa immediatamente successiva c’è solo dominante la quietè, l’immobilità imperturbabile degli animali. L’esistenza dell’universo viene connotata entro due situazioni estreme, entro due limiti estremi: il limite cosmico e il limite puramente terrestre e materiale degli animali, della vita animale sulla terra. In questa parabola l’unico essere che offre le consegueanze dell’eterno movimento o dell’eterna quiete è l’uomo, rappresentato da questo pastore filosofo. Anche a livello formale il canto è organizzato in un confronto tra espressioni statiche (la staticità delle ripetizioni e dei parallelismi) e il movimento della parola, degli interrogazioni e dello sguardo del pastore. Nella seconda strofa troviamo l’immagine del vecchio canuto che esprime l’idea di un movimento frenetico alla ricerca di qualcosa<<senza posa o ristoro>> che in realtà si eprde nel vano. <<il tutto oblia>>. Questo è il momento della ricerca frenetica dell’uomo di se stesso. Poi si aprla della quieta che il pastore potrebbe-dovrebbe condividere con gli animali, ma che invece diventa causa di tedio, oia. I verso sono 120-21 <<e un fastidio mi ingombra la mente…lunge da trovar pace>>. Quindi l’immobilità non è produttrice di tranquillità, bensì solo di noia e ripetizione. Quindi non c’è scampo dice Leopardi alla corsa affannosa del vecchio; a questa immagine corrisponde l’ozio infelice del pastore, il quale non cerca nulla. Anche lui però non trova la felicità. Tant’è che in chiusura del canto il apstore si sente autorizzato, spinto a proporre un’ultima risorsa, possibilità, uno slancio dell’immaginazione per dare un senso qualunque esso sia la proprio esistere. Se lui potesse essere un uccello… o come un tuono.. Forse la sua vita sarebbe felice>>. Ma queste due ipotesi sono legate all’immaginazione, vaghe, vane. Conclude dicendo che <<la nascita è il giorno della morta>> instaurando un discorso circolare che si giude con il binomia vita-morte. I canti del 121 finisco con due canti famosi “La quiete dopo la tempesta “ e “ il sabato del villaggio”. In realtà il canto notturno è stato composto dopo questi. Però nella struttura della raccolta il canto viene prima. Come si legano questi tre tra loro? Si legano in ragione del rapporto tra piacere e noia che tutti affrontano in modo parallelo. La continuità della noia si interrompe dopo che è passato un momento spiacevole: il ritorno del sole dopo la tempesta. Oppure si può interrompere subito prima che si realizzi un momento piacevole come il sabato. Ne derivano due immagini del paicere che sono analoghe, complementari: <<piacere figlio di affanno>>(quieta) <<questo dei sette è il più gradito giorno, pieo di speme e gioia>>. Complementare è anche la storia narrativa: nella quieta il sole ritorna dopo la tempesta e il apese si ripopola dei suoi abitanti che wprimono uno stato di gioia ed esultanza. Nel Sabato viene descritto il momento della sera, quando tutti gli abitanti del apese pensano al piacere del giorno che verrà. In entrambi predominano i suoni. Del tutto simile è il tono ironico e sarcastico con cui si chiudono i due quadretti di vita (che possono sembrare due scenette allegre); ai versi 45 46 della Quiete il poeta nota che i doni della Natura agli uomini altro non sono che la liberazione momentanea dal dolore e nota hce la vera felicità sta nel raggiungere il prima possibile la morte. Quindi le certezze di Leopardi spingono tutte verso la consapevolezza di un destino negativo e spoietato. Nel Sabato del villaggio il poeta si rivolge di prima persona ad un giovane e lo invita a godere di quell’unico momento di vera gioia, dopodichè la festa non ci sa, sarà molto meno piacevole. Il poeta conclude <<altro dir non vuol>. La nota dominante è quella della vita ocme continuità uniforme di noia e dolore, interrotta momentaneamente da piccole fasi di piacere circoscritto. Per cui è evidente lo scopo di Leopardi, ovevro quello di ribaltare queste immagini di vita felice n sentenze negative, dove il poeta parla di una condizione universale di dolore.
I testi che abbiamo letto finora sono quelli che riguardano l’edizione del 31. Sappiamo però che la cosiddetta edizione definitiva dei Canti è quella napoletana del 35, cui seguirà un’edizione completa a dieci anni di distanza (45), realizzata dall’amico Ranieri. Nell’edizione del 35 cambiano molte cose; cambia la struttura della raccolta: tra il primo amore e l’infinito si pone un testo cerniera molto misterioso; il celeberrimo “passero solitario”, testo che sembra non raccontare nulla e sul quale vi sono molti dubbi su quando fu composto. Pure tra La vita solitariae Alla sua donna viene inserito un nuovo testo, composto op nel 32 o nel 33, che s’intitola “Consalvo”. Alro fatto decisivo, la raccolto dei canti del 35 non si chiude più con al qiete ma con un ciclo di 4 testi nuovi, canti d’amore, che sono più che altro una meditazione filosofica sull’amore: Il pensiero dominante, Amore e morte, A se stesso, Aspasia. Seguono poi due canzoni dedicate alla morte di giovani donne, le canzoni definite sepolcrali ; “Sopra un bassorilievo antico sepolcrale” “Sopra il ritratto di una bella donna”. Segue ancora un componimento satirico alla maniera dell’epistola al conte carlo pepoli: “Palinodia al marchese..”. Seguono quelli che sono i veri testi conclusiviì; canti composti negli utlimi anni di vita: “Il tramonto della Luna” “La ginesta”. Poi c’è Imitazione e Scherzo. Diciamoc he rispoetto all’edizione del 31 il ciclo amoroso nato dall’esperienza fiorentina e l’ultima sezione filosofica dominata da un testo mitico come la ginestra approfondiscono quelli che sono diventati i due aspetti fondamentali dell’ispirazione leopardiana, e cioè l’aspetto privato e quello dedicato a problemi e quistioni di carattere morale ed esistenziale. Procedendo con ordine la prima è il Passero solitario.
PASSERO SOLITARIO
Il poeta rappresenta se stesso in rapporto al passero solitario, al quale si rivolge come se fosse un interlocutore reale. Quando il poeta scrive questo testo o ha 32 anni o 36 anni, allora è del tutto fuori luogo il modo in cui si descrive, ovvero in una condizione giovane. Leopardi finge di paragonare la sua condizione con quella del passero. Pensa a cosa succederà una volta divenuto adulto. Ma perché Leopardi ha avuto bisogno di escogitare questa finzione? Le ragioni stanno nel legame che c’è tra il passero solitario i testi che seguono e rpecedono e i legami che questo teso ha con canti come le Ricordanze. Il motivo dell’esclusione del giovane dalla festa del paese, dalla felicità degli abitanti, quando i giovani si rendono conto del dolore della vita, allora ecco che tutte le energie positive si convertono in forza negativa, andando a trasformare il giovne in un misantropo. Si deve quindi ipotizzare che Leopardi pensasse di rendere più forte il vettore autobiografico calcolando attentamnete tutte le riprese e legami che si rincorrono tra un testo e l’altro. Pur non essendo un testo idilico, il passero solitario contiene elementi di poetica idillica, soprattutto anticipa il tema della memoria che nelle Ricordanze sarà il tema principale; ma accanto al tema della memoria si impone il tema dello sguardo o del vedere. Al verso 12 <<tu pensoso in disparte il tutto miri> E questa è la caratteristiche che rende il passero simile al poeta. Nella scena seguente viene allora descritta la fine di un giorno di festa, durante il quale la gioventù del paese scende tra le trade e s’allegra. In questa reciprocità degli sguardi corrisponderebbe la felicità del tempo giovanile. Dice che i suoi sguardi non sono ricambiati da nessun altro sguardo umano. L’immagine finale del tramonto e del vuoto preannuncia l’immagine conclusiva della rsaccolto dove si ha il tramonto della luna (e non il sole). Lapidaria è la frase <<la vita mortal poi che la bella giovinezza sparì non si colora di altra luce giammai>>. La vita non rinasce più, la giovinezza.
Nessun commento:
Posta un commento