Come il quadro della preistoria toscana mostra sì un suc-
cedersi di correnti e di legami con altre regioni d'Italia,
ma mai un brusco svolgimento della storia culturale della
regione; come la sua etnia, dalla fase tirrenica alla etru-
sca, è praticamente incontaminata fino all'età storica, così
questa omogeneità e linearità si ripete per quanto riguarda
lo svolgimento della latinità di Toscana.
cedersi di correnti e di legami con altre regioni d'Italia,
ma mai un brusco svolgimento della storia culturale della
regione; come la sua etnia, dalla fase tirrenica alla etru-
sca, è praticamente incontaminata fino all'età storica, così
questa omogeneità e linearità si ripete per quanto riguarda
lo svolgimento della latinità di Toscana.
Il latino di Toscana è quello che meno ha risentito di processi di mesco-
lanza linguistica. Se si tiene conto di un fattore materiale
come la conservazione delle epigrafi antiche, ecco che, nel-
l'Etruria centrale e meridionale, la proporzione delle iscri-
zioni etrusche arrivate a noi schiaccia il numero di quelle
latine. Solo nella Toscana settentrionale il numero delle
testimonianze epigrafiche è minore e quelle latine mo-
strano una leggera prevalenza. Le due tradizioni lingui-
stiche solo nella Etruria settentrionale si erano avviate
verso una reciproca fusione ^
La prima affermazione romana in direzione dell'Etruria si
è avuta nel iv secolo a.C. con la precoce fondazione delle
colonie di Sutri (383 a.C.) e Nepi, oggi nel Lazio. Ma col
III secolo la espansione romana segue tutt'altra direzione,
quella della odierna via Flaminia. L'Etruria accoglie qual-
che rara colonia. Cosa (273) e Heba (dopo il 168), al
confine ligure Luni (177) e Lucca ^. La maggior parte
delle città rimase nella condizione di alleate, e le auto-
nomie politica linguistica e culturale si associano insieme
per dare anche in questa età alla Toscana quella figura di
area appartata, che aveva già conosciuto nella preistoria.
Al distacco dallo strato linguistico precedente si accom-
pagna, dopo il conferimento della cittadinanza e la fine
delle autonomie, ancora nel i secolo a.C, anche una certa
lentezza nello stringer legami con la metropoli romana
che, attraverso il crescente urbanesimo, si legava invece
con regioni più meridionali e in particolare con la Cam-
pania. Finalmente quando, dopo il sacco di Alarico, Roma
ai primi del v secolo d.C. viene ricolonizzata, ecco che i
coloni di origine prevalentemente meridionale danno al la-
tino di Roma quella impronta meridionale che conserverà
sino al tempo dei papi medicei, e che in parte ha conser-
vato fino ai giorni nostri ^.
La Toscana, che riprende la figura di regione appartata
fra l'Appennino tosco-emiliano e il corso del Tevere, con-
sente allora una classificazione in aree minori, vista non
sotto l'aspetto di caratteri autonomi attivi, ma piutto-
sto secondo le influenze esterne che in parte riescono ad
aflermarsi contro il suo intrinseco isolamento. Queste sub-
regioni sono quattro. Quella orientale si trova ad occi-
dente del Tevere e va, a debita distanza dal fiume, da
Arezzo sino a Chiusi. Essa ha contatti o subisce influenze
comuni ai dialetti dell'Umbria nord-occidentale "*. La se-
conda subregione è quella meridionale soprattutto a mez-
zogiorno del monte Amiata: essa ha subito alcuni degli
influssi meridionali che si erano imposti nel Lazio ^. La
terza è l'occidentale, livornese pisana lucchese, e mostra
legami liguri ^. Immediatamente a settentrione, essa si
continua nell'area ancora toscana della Versilia fino a
Massa, mentre da Carrara in poi, per tutta la Lunigiana,
si ha un territorio linguisticamente emiliano. La quarta
subregione è quella (centrale) che comprende il toscano
più puro e insieme più bello, e cioè Siena e Firenze, fra
le quali attribuiremo la bellezza piuttosto a Siena e la
purezza a Firenze; proprio Firenze è l'area che è stata
meno raggiunta da caratteri non genuinamente toscani. A
questo isolamento di Firenze hanno condotto non tanto
fattori geografici quanto circostanze storiche e principal-
mente queste due: la prima organizzazione di Stato, dopo
la caduta dell'Impero Romano, che si è imperniata sul du-
cato longobardo di Lucca, il quale ha irradiato per tutta
gran parte della Toscana singoli elementi linguistici set-
tentrionali '', e, più tardi, la grande via dei pellegrinaggi
che, discendendo per la Garfagnana, attraverso Lucca Em-
poli Siena, stabiliva un itinerario di grande importanza.
L'uno e l'altro fattore avevano come risultato di lasciar
da parte Firenze.
1 caratteri fondamentali dei dialetti toscani sono quattro:
V a) sono i soli in Italia a ignorare e ad aver ignorato la
|r^ metafonia (o compenso qualitativo) di qualsiasi tipo; estra-
nei ai dialetti toscani sono rapporti come capello-ca pilli
sotto l'influenza di una i finale che si indeboliva; b) le con-
sonanti occlusive sorde in posizione intervocalica tendono
a spirantizzarsi (in certi casi a dileguare) *; e) la finale del
tlatino volgare -ariu è resa con -aio contro i tipi aro o
-ERO delle altre regioni ^; d) il gruppo RV è reso con rb
/(come Lv con lb): per esempio il latino nervus diventa
nerbo, il latino Uva diventa Elba ^". A sua volta il dialetto
fiorentino ha ulteriori caratteri particolari: a) il passag-
gio a una articolazione velare della t intervocalica in
posizione postonica: così andaho per «andato»; b) il
mantenimento " del colorito leu davanti ai gruppi di n
più consonante gutturale come in mungo, lingua, sottratti ^
al passaggio in mango lengua, normale in tutte le altre
aree; e) il passaggio di -ar- non accentato in -er- come nei
w futuri loderò, amerò ^^; d) il mantenimento delle con-
sonanti semplici dopo l'accento in parole sdrucciole, che
nelle altre aree tendono invece al raddoppiamento, per
j esempio Africa, sabato di fronte a Affrica, sabbato '^. No-
nostante questo isolamento, i primi testi scritti fiorentini,
quali sono stati illustrati soprattutto per merito di Alfredo
Schiaffini e Arrigo Castellani '*, sono lontani da una sta-
bilità morfologica e mostrano frequenti influenze esterne
quasi fossero stati dominati, i primi scribi, da un com-
plesso di inferiorità verso i centri vicini: metteno, disseno
provengono dalle aree occidentali al posto dei normali
mettono, dissero. Anche le fomie fiorentina Dio, mio, bue
presuppongono modelli toscano-meridionali nei quali le
forme dittongate dieo, mieo, bueo erano accentate sul pri-
mo elemento del dittongo: dieo, mìeo, bùeo ^^.
Nel gruppo occidentale hanno risalto le forme con r sem-
plice invece che doppia come in tera per « terra », un
fenomeno che non è però sconosciuto nel resto della To-
scana); le ss sorde al posto delle zz nei tipi terasso,\/
carossa, piassa; così le s stanno al posto delle z corri-
spondenti nei casi di orso per « orzo », calsa, alsare, can- ^
sone ^^. Il fatto che questa pronuncia delle affricate fosse
collegata con regioni sia pure vicine ma estranee alla To-
scana, ha determinato correzioni ingiustificate come polzo,
penzare. Analoga correzione ingiustificata è data per il
lucchese dai tipi fornaglio per « fornaio »'^. Altre forme
anomale rispetto al fiorentino si trovano nei testi me-
dievali dell'area in questione. Dante rimprovera ai pisani
nel De vulgari eloquentia la sostituzione della z con s (di
cui si è detto) e la desinenza della terza plurale del pas-
sato remoto in -onno (che è però caratteristica di tutta la
regione) ^*: « Bene andonno li fanti da Fiorensa per Pi-
sa » *'. Il toscano occidentale infine si è sovrapposto, al
tempo della espansione marinara di Pisa, in Corsica e ha
dato un'impronta sua al còrso detto « cismontano » ^°.
Nell'area meridionale compaiono, soprattutto nei testi an-
tichi, le forme « non fiorentine » del tipo fameglia e
jongo^^. Accanto ad essi si hanno esempi di passaggio di
-er- atono ad -ar- {vendaré), di palatalizzazione davanti ad
I del tipo di anegli per « anelli %, di contrazione dei dit-
tonghi per cui si scrive insime, Orvito^. Alterazioni iso-
late — che hanno anch'esse riscontro in quasi tutta la
Toscana — sono gombito, cèndare per « gomito », « cene-
re » ^. Esse possono essere una presa di posizione contro
una presunta assimilazione laziale del tipo di quanno, ri-
spetto al corretto quando. Ai senesi che si comportano
ancora « meridionalmente », Dante rimprovera perciò la
frase « onche renegata avesse io Siena »: la forma fioren-
tina sarebbe stata unche.
Caratteri tipici della area orientale sono: a) la pronuncia
palatalizzata di a come in baco, caso, mano, paglido ^^;
b) la metatesi di tipo emiliano in annette invece di ri-
mette, arfucilldre invece di rifocillare^; e) il tardivo ar-
rivo della dittongazione fiorentina provato dal fatto che
essa colpisce anche puoco, cuosa, che in fiorentino ap-
paiono invece intatti, in quanto il passaggio di AU a o
posteriore all'affermazione del dittongo uo da o aperta ^.
Dante non critica solo pisani e senesi, ma se la prende
con i toscani tutti, accomunando ai fatti di lingua anche
giudizi di costume. Nel rinfacciare ai fiorentini la frase
« manichiamo introcque. che noi non facciamo altro » in-
siste piuttosto sulla neghittosità dell'atteggiamento che sul-
la qualità del verbo manicare per « mangiare ». Ma, an-
che al di fuori dei casi concreti, il giudizio di insieme è
severo con « ... i Toscani, i quali fatti stolti per loro dis-
sennatezza mostrano di arrogarsi l'onore del volgare illu-
stre. Ed in ciò non solo folleggia la pretesa della plebe...
e poiché i Toscani più degli altri sono in cotesta ubriaca-
tura furiosi, appare degna e utile cosa in qualche parte
spogliare ad uno del loro vanto i volgari municipali dei
Toscani ».
La difficoltà nella distinzione tra lingua e dialetto è par-
ticolarmente notevole nel caso del lessico. Fonetica e mor-
fologia sono state infatti incanalate da secoli in schemi
normativi più o meno rigidi: contravvenire a questi di-
cendo, secondo il tipo vernacolare del fiorentino odierno,
/ ffoho o le' la mi disse ^^, equivale a mettersi esplicitamente
fuori della lingua nazionale. Ma nel campo del lessico una
tale distinzione non è sempre facile: fattoio per « fran-
toio » e midolla per « mollica » ^^ sono parole riportate
dai vocabolari italiani, insieme al rustico redo « vitello
piccolo » (dal lat. herede) che è entrato anche nella poe-
sia del Pascoli e del D'Annunzio. Si tratta, come nel primo
caso, di termini che hanno una tradizione scritta antica,
anche se sono rimasti soverchiati nell'uso letterario da
un'altra parola; oppure di voci tecniche o espressive che
possono venir usate anche in lingua o perché insostitui-
bili (tipico il caso di coreggiato, accettato anche con la
notevole degeminazione contadina) o perché designano con
maggiore evidenza e semplicità l'oggetto (così per gota in
confronto al prezioso guancia) ^^, anche senza che si vo-
glia chiaramente indulgere a una coloritura regionale, che
porrebbe il toscano alla stessa stregua degli altri dialetti.
L'isolamento della parola nel contesto dialettale italiano
non ha molto valore in un rapporto come questo; la lingua
ha accettato, come fondamentali, termini toscani che riman-
gono isolati o quasi nell'ambito dialettale italiano: così
topo, così poggio, maiale, chiocciola, ramarro ^ (per il
quale l'origine etmsca, nonostante la fragilità della sup-
posizione^', appare sempre attraente); ma al di fuori del
rapporto dialetto-lingua, nella proiezione dei tipi lessicali
in uso in territorio italiano, questa singolarità può essere
significativa.
Il lessico toscano va dunque considerato, come ogni altro
lessico dialettale, per la ricchezza degli spunti che il suo
studio può fornire: notiamo allora la contrapposizione del-
l'orientale pecchia (da apiculà) all'occidentale ape (spesso
lapa o apia^^) o l'uso traslato di barba per «radice», di
toppa per « serratura », di spera, ormai antiquato, per
« specchio »^^. Ma sono esempi isolati e cristallizzati di un
lessico toscano « non-italiano » che sentiamo ancora vitale
soprattutto nelle campagne.
Ed ecco, dal volume di G. Papanti, / parlari italiani a
Certaldo, cinque esempi di dialetti parlati in Toscana, ma
progressivamente sempre più divergenti e lontani dal mo-
dello fiorentino ^^i
Da Firenze (lingua della plebe) : V'ache donch'a sapere,
come quarmente ai ttempo di pprimo re di Cipro, chand' i'
Ggoffredo di Buglione ebbe agguantacha la Terra Santa, e'
s'abbattè che una signorone di Guascogna la volle ì ppel-
legrinando a i ssanto Sepolcro; e n'ì ttornare, come la fu
a Ciprio, certi mascalzoni gnene dissano e gnene feciano di
chelle nere. (A cura di Pietro Fanfani).
Da Pietrasanta (Lucca) : Dico dunqua, che ne' tempi del
primo Rèe di Cipri, doppo la conquista di Tera Santa fatta
da Goffredo di BuUione, accadèe che una garbata donna di
Guascogna pelegrinando andòe al Sepolcro, di duve ritor-
nando a Cipri, da certi scelerati omini villanescamente
fue oltraggiata. (A cura di Vincenzo Santini).
Da Pitigliano (Grosseto) : Dicio donque che quanno ci
adéra i 'primmu Rene di Cipriu, doppu che Grufedo di
Boglione s'impatronì di Terra Santa, una gran donna di
Gascògna agnede in pellegrinaggiu a i' Sepulgru, e nel
rivenire di dimmellà, quanno arrivone a Cipriu, da certi
birboni fune sforzata. (A cura di Giuseppe Bruscalupi).
Da Arezzo (dialetto del contado) : Dico dónqua, c'al
tempo che regnaeva '1 primi Réie de Cipri, quande che
Guttifreie de Buglione avv'arquisto qui Liuóghi Santi, se
dède '1 chaeso, che 'na signuora de Guascogna vette pili-
grinando al Sipolcro de Ghiesù Cristo. E 'n tul mentre
c'artornè a chaesa, giónta che fue a Cipri, s'embattètte 'n
tur una branchaeta de mèlviventi che la 'ncarconno d'ugni
suorta de vitupèrio. (A cura di Luigi Goracci).
Da Pontremoli: Donch a digh che ai teumpi dal prim
Reu d' Cipri, dop che Gotifred d'Buglion j'avè pia Tera
Santa, a sucèss che na siora com' a va d' Guascogna l'andè
pulugrinand al Sepulcar, e antal tornar andré, arivà eia
fu a Cipri, na mandga du sbarassin iss misson a scarognar-
la. (A cura di G. Giumelli).
Dai Cento sonetti pisani di R. Fucini togliamo pochi ver-
si ^- dedicati al santo protettore della città, che la tradi-
zione vuole ladro convertito:
Levato quer viziaccio di rubare
San Ranieri è 'n gran santo di 've boni,
Quando dianzi l'ho visto 'n sull'altare,
Lo 'redi? m'è vienuto e' luccì'oni.
E aggiungiamo una strofa in fiorentino plebeo di V. Ca-
maiti ^, il quale vuol esaltare la lingua toscana di fronte
a quegli « Italiani » che non riescono a piacergli:
Gli arebbano un decatti a un rifiatare
questi buzzurri sparsi per i' mmondo.
Dice son Italiani... e in fondo in fondo
sarà... Defatti un c'è di mezzo i'mmare.
lanza linguistica. Se si tiene conto di un fattore materiale
come la conservazione delle epigrafi antiche, ecco che, nel-
l'Etruria centrale e meridionale, la proporzione delle iscri-
zioni etrusche arrivate a noi schiaccia il numero di quelle
latine. Solo nella Toscana settentrionale il numero delle
testimonianze epigrafiche è minore e quelle latine mo-
strano una leggera prevalenza. Le due tradizioni lingui-
stiche solo nella Etruria settentrionale si erano avviate
verso una reciproca fusione ^
La prima affermazione romana in direzione dell'Etruria si
è avuta nel iv secolo a.C. con la precoce fondazione delle
colonie di Sutri (383 a.C.) e Nepi, oggi nel Lazio. Ma col
III secolo la espansione romana segue tutt'altra direzione,
quella della odierna via Flaminia. L'Etruria accoglie qual-
che rara colonia. Cosa (273) e Heba (dopo il 168), al
confine ligure Luni (177) e Lucca ^. La maggior parte
delle città rimase nella condizione di alleate, e le auto-
nomie politica linguistica e culturale si associano insieme
per dare anche in questa età alla Toscana quella figura di
area appartata, che aveva già conosciuto nella preistoria.
Al distacco dallo strato linguistico precedente si accom-
pagna, dopo il conferimento della cittadinanza e la fine
delle autonomie, ancora nel i secolo a.C, anche una certa
lentezza nello stringer legami con la metropoli romana
che, attraverso il crescente urbanesimo, si legava invece
con regioni più meridionali e in particolare con la Cam-
pania. Finalmente quando, dopo il sacco di Alarico, Roma
ai primi del v secolo d.C. viene ricolonizzata, ecco che i
coloni di origine prevalentemente meridionale danno al la-
tino di Roma quella impronta meridionale che conserverà
sino al tempo dei papi medicei, e che in parte ha conser-
vato fino ai giorni nostri ^.
La Toscana, che riprende la figura di regione appartata
fra l'Appennino tosco-emiliano e il corso del Tevere, con-
sente allora una classificazione in aree minori, vista non
sotto l'aspetto di caratteri autonomi attivi, ma piutto-
sto secondo le influenze esterne che in parte riescono ad
aflermarsi contro il suo intrinseco isolamento. Queste sub-
regioni sono quattro. Quella orientale si trova ad occi-
dente del Tevere e va, a debita distanza dal fiume, da
Arezzo sino a Chiusi. Essa ha contatti o subisce influenze
comuni ai dialetti dell'Umbria nord-occidentale "*. La se-
conda subregione è quella meridionale soprattutto a mez-
zogiorno del monte Amiata: essa ha subito alcuni degli
influssi meridionali che si erano imposti nel Lazio ^. La
terza è l'occidentale, livornese pisana lucchese, e mostra
legami liguri ^. Immediatamente a settentrione, essa si
continua nell'area ancora toscana della Versilia fino a
Massa, mentre da Carrara in poi, per tutta la Lunigiana,
si ha un territorio linguisticamente emiliano. La quarta
subregione è quella (centrale) che comprende il toscano
più puro e insieme più bello, e cioè Siena e Firenze, fra
le quali attribuiremo la bellezza piuttosto a Siena e la
purezza a Firenze; proprio Firenze è l'area che è stata
meno raggiunta da caratteri non genuinamente toscani. A
questo isolamento di Firenze hanno condotto non tanto
fattori geografici quanto circostanze storiche e principal-
mente queste due: la prima organizzazione di Stato, dopo
la caduta dell'Impero Romano, che si è imperniata sul du-
cato longobardo di Lucca, il quale ha irradiato per tutta
gran parte della Toscana singoli elementi linguistici set-
tentrionali '', e, più tardi, la grande via dei pellegrinaggi
che, discendendo per la Garfagnana, attraverso Lucca Em-
poli Siena, stabiliva un itinerario di grande importanza.
L'uno e l'altro fattore avevano come risultato di lasciar
da parte Firenze.
1 caratteri fondamentali dei dialetti toscani sono quattro:
V a) sono i soli in Italia a ignorare e ad aver ignorato la
|r^ metafonia (o compenso qualitativo) di qualsiasi tipo; estra-
nei ai dialetti toscani sono rapporti come capello-ca pilli
sotto l'influenza di una i finale che si indeboliva; b) le con-
sonanti occlusive sorde in posizione intervocalica tendono
a spirantizzarsi (in certi casi a dileguare) *; e) la finale del
tlatino volgare -ariu è resa con -aio contro i tipi aro o
-ERO delle altre regioni ^; d) il gruppo RV è reso con rb
/(come Lv con lb): per esempio il latino nervus diventa
nerbo, il latino Uva diventa Elba ^". A sua volta il dialetto
fiorentino ha ulteriori caratteri particolari: a) il passag-
gio a una articolazione velare della t intervocalica in
posizione postonica: così andaho per «andato»; b) il
mantenimento " del colorito leu davanti ai gruppi di n
più consonante gutturale come in mungo, lingua, sottratti ^
al passaggio in mango lengua, normale in tutte le altre
aree; e) il passaggio di -ar- non accentato in -er- come nei
w futuri loderò, amerò ^^; d) il mantenimento delle con-
sonanti semplici dopo l'accento in parole sdrucciole, che
nelle altre aree tendono invece al raddoppiamento, per
j esempio Africa, sabato di fronte a Affrica, sabbato '^. No-
nostante questo isolamento, i primi testi scritti fiorentini,
quali sono stati illustrati soprattutto per merito di Alfredo
Schiaffini e Arrigo Castellani '*, sono lontani da una sta-
bilità morfologica e mostrano frequenti influenze esterne
quasi fossero stati dominati, i primi scribi, da un com-
plesso di inferiorità verso i centri vicini: metteno, disseno
provengono dalle aree occidentali al posto dei normali
mettono, dissero. Anche le fomie fiorentina Dio, mio, bue
presuppongono modelli toscano-meridionali nei quali le
forme dittongate dieo, mieo, bueo erano accentate sul pri-
mo elemento del dittongo: dieo, mìeo, bùeo ^^.
Nel gruppo occidentale hanno risalto le forme con r sem-
plice invece che doppia come in tera per « terra », un
fenomeno che non è però sconosciuto nel resto della To-
scana); le ss sorde al posto delle zz nei tipi terasso,\/
carossa, piassa; così le s stanno al posto delle z corri-
spondenti nei casi di orso per « orzo », calsa, alsare, can- ^
sone ^^. Il fatto che questa pronuncia delle affricate fosse
collegata con regioni sia pure vicine ma estranee alla To-
scana, ha determinato correzioni ingiustificate come polzo,
penzare. Analoga correzione ingiustificata è data per il
lucchese dai tipi fornaglio per « fornaio »'^. Altre forme
anomale rispetto al fiorentino si trovano nei testi me-
dievali dell'area in questione. Dante rimprovera ai pisani
nel De vulgari eloquentia la sostituzione della z con s (di
cui si è detto) e la desinenza della terza plurale del pas-
sato remoto in -onno (che è però caratteristica di tutta la
regione) ^*: « Bene andonno li fanti da Fiorensa per Pi-
sa » *'. Il toscano occidentale infine si è sovrapposto, al
tempo della espansione marinara di Pisa, in Corsica e ha
dato un'impronta sua al còrso detto « cismontano » ^°.
Nell'area meridionale compaiono, soprattutto nei testi an-
tichi, le forme « non fiorentine » del tipo fameglia e
jongo^^. Accanto ad essi si hanno esempi di passaggio di
-er- atono ad -ar- {vendaré), di palatalizzazione davanti ad
I del tipo di anegli per « anelli %, di contrazione dei dit-
tonghi per cui si scrive insime, Orvito^. Alterazioni iso-
late — che hanno anch'esse riscontro in quasi tutta la
Toscana — sono gombito, cèndare per « gomito », « cene-
re » ^. Esse possono essere una presa di posizione contro
una presunta assimilazione laziale del tipo di quanno, ri-
spetto al corretto quando. Ai senesi che si comportano
ancora « meridionalmente », Dante rimprovera perciò la
frase « onche renegata avesse io Siena »: la forma fioren-
tina sarebbe stata unche.
Caratteri tipici della area orientale sono: a) la pronuncia
palatalizzata di a come in baco, caso, mano, paglido ^^;
b) la metatesi di tipo emiliano in annette invece di ri-
mette, arfucilldre invece di rifocillare^; e) il tardivo ar-
rivo della dittongazione fiorentina provato dal fatto che
essa colpisce anche puoco, cuosa, che in fiorentino ap-
paiono invece intatti, in quanto il passaggio di AU a o
posteriore all'affermazione del dittongo uo da o aperta ^.
Dante non critica solo pisani e senesi, ma se la prende
con i toscani tutti, accomunando ai fatti di lingua anche
giudizi di costume. Nel rinfacciare ai fiorentini la frase
« manichiamo introcque. che noi non facciamo altro » in-
siste piuttosto sulla neghittosità dell'atteggiamento che sul-
la qualità del verbo manicare per « mangiare ». Ma, an-
che al di fuori dei casi concreti, il giudizio di insieme è
severo con « ... i Toscani, i quali fatti stolti per loro dis-
sennatezza mostrano di arrogarsi l'onore del volgare illu-
stre. Ed in ciò non solo folleggia la pretesa della plebe...
e poiché i Toscani più degli altri sono in cotesta ubriaca-
tura furiosi, appare degna e utile cosa in qualche parte
spogliare ad uno del loro vanto i volgari municipali dei
Toscani ».
La difficoltà nella distinzione tra lingua e dialetto è par-
ticolarmente notevole nel caso del lessico. Fonetica e mor-
fologia sono state infatti incanalate da secoli in schemi
normativi più o meno rigidi: contravvenire a questi di-
cendo, secondo il tipo vernacolare del fiorentino odierno,
/ ffoho o le' la mi disse ^^, equivale a mettersi esplicitamente
fuori della lingua nazionale. Ma nel campo del lessico una
tale distinzione non è sempre facile: fattoio per « fran-
toio » e midolla per « mollica » ^^ sono parole riportate
dai vocabolari italiani, insieme al rustico redo « vitello
piccolo » (dal lat. herede) che è entrato anche nella poe-
sia del Pascoli e del D'Annunzio. Si tratta, come nel primo
caso, di termini che hanno una tradizione scritta antica,
anche se sono rimasti soverchiati nell'uso letterario da
un'altra parola; oppure di voci tecniche o espressive che
possono venir usate anche in lingua o perché insostitui-
bili (tipico il caso di coreggiato, accettato anche con la
notevole degeminazione contadina) o perché designano con
maggiore evidenza e semplicità l'oggetto (così per gota in
confronto al prezioso guancia) ^^, anche senza che si vo-
glia chiaramente indulgere a una coloritura regionale, che
porrebbe il toscano alla stessa stregua degli altri dialetti.
L'isolamento della parola nel contesto dialettale italiano
non ha molto valore in un rapporto come questo; la lingua
ha accettato, come fondamentali, termini toscani che riman-
gono isolati o quasi nell'ambito dialettale italiano: così
topo, così poggio, maiale, chiocciola, ramarro ^ (per il
quale l'origine etmsca, nonostante la fragilità della sup-
posizione^', appare sempre attraente); ma al di fuori del
rapporto dialetto-lingua, nella proiezione dei tipi lessicali
in uso in territorio italiano, questa singolarità può essere
significativa.
Il lessico toscano va dunque considerato, come ogni altro
lessico dialettale, per la ricchezza degli spunti che il suo
studio può fornire: notiamo allora la contrapposizione del-
l'orientale pecchia (da apiculà) all'occidentale ape (spesso
lapa o apia^^) o l'uso traslato di barba per «radice», di
toppa per « serratura », di spera, ormai antiquato, per
« specchio »^^. Ma sono esempi isolati e cristallizzati di un
lessico toscano « non-italiano » che sentiamo ancora vitale
soprattutto nelle campagne.
Ed ecco, dal volume di G. Papanti, / parlari italiani a
Certaldo, cinque esempi di dialetti parlati in Toscana, ma
progressivamente sempre più divergenti e lontani dal mo-
dello fiorentino ^^i
Da Firenze (lingua della plebe) : V'ache donch'a sapere,
come quarmente ai ttempo di pprimo re di Cipro, chand' i'
Ggoffredo di Buglione ebbe agguantacha la Terra Santa, e'
s'abbattè che una signorone di Guascogna la volle ì ppel-
legrinando a i ssanto Sepolcro; e n'ì ttornare, come la fu
a Ciprio, certi mascalzoni gnene dissano e gnene feciano di
chelle nere. (A cura di Pietro Fanfani).
Da Pietrasanta (Lucca) : Dico dunqua, che ne' tempi del
primo Rèe di Cipri, doppo la conquista di Tera Santa fatta
da Goffredo di BuUione, accadèe che una garbata donna di
Guascogna pelegrinando andòe al Sepolcro, di duve ritor-
nando a Cipri, da certi scelerati omini villanescamente
fue oltraggiata. (A cura di Vincenzo Santini).
Da Pitigliano (Grosseto) : Dicio donque che quanno ci
adéra i 'primmu Rene di Cipriu, doppu che Grufedo di
Boglione s'impatronì di Terra Santa, una gran donna di
Gascògna agnede in pellegrinaggiu a i' Sepulgru, e nel
rivenire di dimmellà, quanno arrivone a Cipriu, da certi
birboni fune sforzata. (A cura di Giuseppe Bruscalupi).
Da Arezzo (dialetto del contado) : Dico dónqua, c'al
tempo che regnaeva '1 primi Réie de Cipri, quande che
Guttifreie de Buglione avv'arquisto qui Liuóghi Santi, se
dède '1 chaeso, che 'na signuora de Guascogna vette pili-
grinando al Sipolcro de Ghiesù Cristo. E 'n tul mentre
c'artornè a chaesa, giónta che fue a Cipri, s'embattètte 'n
tur una branchaeta de mèlviventi che la 'ncarconno d'ugni
suorta de vitupèrio. (A cura di Luigi Goracci).
Da Pontremoli: Donch a digh che ai teumpi dal prim
Reu d' Cipri, dop che Gotifred d'Buglion j'avè pia Tera
Santa, a sucèss che na siora com' a va d' Guascogna l'andè
pulugrinand al Sepulcar, e antal tornar andré, arivà eia
fu a Cipri, na mandga du sbarassin iss misson a scarognar-
la. (A cura di G. Giumelli).
Dai Cento sonetti pisani di R. Fucini togliamo pochi ver-
si ^- dedicati al santo protettore della città, che la tradi-
zione vuole ladro convertito:
Levato quer viziaccio di rubare
San Ranieri è 'n gran santo di 've boni,
Quando dianzi l'ho visto 'n sull'altare,
Lo 'redi? m'è vienuto e' luccì'oni.
E aggiungiamo una strofa in fiorentino plebeo di V. Ca-
maiti ^, il quale vuol esaltare la lingua toscana di fronte
a quegli « Italiani » che non riescono a piacergli:
Gli arebbano un decatti a un rifiatare
questi buzzurri sparsi per i' mmondo.
Dice son Italiani... e in fondo in fondo
sarà... Defatti un c'è di mezzo i'mmare.
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